Sospesi tra progressive, thrash e trash, i Propagandhi fotografano ancora una volta la rabbia disillusa di chi non ha più nulla da perdere. E, sorvolando su malcelate ipocrisie, lo fanno benissimo. Che disco, pischelli. Splattercore che piscia acquaragia sui sepolcri imbiancati del terzo millennio. Basta polluzioni pseudo nofxiane alla "Less Talk, More Rock". Ora non si scherza più.

L'angosciosa ninna nanna di "Night Letters" è uno squarcio sonoro che cerca di soffocare il silenzio della terra bruciata, urlando a pieni polmoni la sua devozione per i Sacrifice (ma nessuno se ne lamenta). Il canto sferzante di Todd Kowalski (monotono, ma fa il suo dovere), però, dura poco. Presto si stempererà nel sublime fatalismo di "Supporting Caste", elegia thrash che mesmerizza e stordisce, si rannicchia quieta nei riverberi del ponte per poi deflagrare acutissima. Sghembi e commossi, questi Propagandhi, perennemente sottratti alla messa a fuoco, alla facile seduzione di un ritornello catchy. Un flusso di coscienza, come viene viene, un testamento subito in bella del sommo paroliere Chris Hannah (avercene!), che riesce perfino a renderti tollerabili i vegani ("Humane Meat: the Flensing of Sandor Katz"), da qualche parte tra i primi Strung Out e "Hit the Lights" ("The Funeral Procession"). Il tutto orchestrato dai sincopati groove del guru Samolesky, il cui manifesto è "Without Love", commossa eco di quella "Celebrated Summer" che ha dato un senso agli anni '90 (e ai Soul Asylum). La morte di un gattino genera mostri. E crea capolavori. Tutto il resto è prescindibile noia, ozioso orpello che accelera la fuga dai fuochi fatui di Potemkin. Ipocrisie di cartapesta che ci impediscono di rivedere le stelle, di sognare un headbanging sfrenato cullati dall'algida bellezza dell'aurora boreale.

Satana benedica i Propagandhi.

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