Guardo le gocce di pioggia infrangersi contro la siepe così ben spuntata del mio vicino. Un inizio giugno che pare ottobre inoltrato. Di quelle non giornate in cui ti svegli per miracolo e trovi un libro dimenticato da un amico che s’intitola “Il linguaggio segreto del corpo”. Ci volevano proprio pensieri di sciacallaggio nei confronti delle insicurezze terrene tra un biscotto e l’altro a colazione. Allora faccio ciò che è più consono fare in queste mattinate provinciali e anestetizzate: metto su musica per alimentare quella nullità che mi pervade, per fissare il vuoto con un sottofondo più appropriato dell’inquietante silenzio.

Le urla d’adolescenti repressi dei PS I Love You risultano terapeutiche per lenire letargie mattutine, così come le loro chitarre aguzze e decadenti. Uno schiaffo post-melodico che sembra uscire da un garage 30 metri sotto terra. Mi sono innamorato in particolare di “How Do You” e della sua vitalità repressa in bilico tra rancore e malinconia. Ma anche di “First Contact”, uno dei pezzi rock più belli di questi anni.
La forza di un disco come questo è l’incoerenza. Il furore dei canadesi riesce grezzamente a concretizzarsi in poche canzoni, al più afferriamo bozze di melodie sotto il velo noise del distorsore a palla, altre volte ci si perde in un certo kitschume da divi pop: “Sentimental Dishes” e “Don’t Go” su tutte la fanno un po’ fuori dal vaso.

Una più che conferma dopo il valido debutto, questi ragazzi ne hanno da dire, al contrario del sottoscritto. E ora su quella siepe di merda sta grandinando.

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