La mia teoria è questa: una mattina i negozi di dischi di una grande catena distributiva, una qualunque negli Stati Uniti, hanno deciso di tirare fuori le rimanenze di magazzino, più o meno del periodo ’80-’90. Scatole e scatole di compact piazzati tra le offerte speciali a diciamo 10 dollari? O giù di lì. Supponiamo, adesso, un arco di tempo sufficientemente ragionevole; diciamo che, più o meno, tutto questo potrebbe essere successo un paio d’anni fa? Magari tre. Il tempo necessario perché un soggetto sfigatello (leggi con una cultura musicale un po’ più penetrante rispetto alla media) con età compresa tra 24-30 anni, decidesse di pescare dal mucchio perché quel disco l’aveva sentito ma non ce l’aveva, oppure non aveva la minima idea di cosa fosse, chessò gli piaceva la copertina, o semplicemente 10 dollari sono un prezzo conveniente, spenderli in musica fa bene al cuore. Diamoci un annetto per consumare e assimilare quei compact. Spiritualized, Ride, sicuramente i primi Low, e osserveremo un ritorno diffuso di atmosfere passate. In fondo stiamo descrivendo una moda, quella statistica però, l’elemento con la frequenza più alta. Viene abbastanza facile immaginare, a questo punto, che il tutto abbia potuto viaggiare fino ad Austin, Texas. E qui, al nostro discorso teorico iniziale stiamo per aggiungere un bel pippone sentimentalotto sulla parte riflessiva ed intimista degli stati del sud, grandi campagne, piattume paesaggistico notevole (sembra che non mi piaccia, ma in realtà è esattamente il contrario), strade che si perdono nel cielo basso all’orizzonte, metropoli orrende quel tanto che basta dal punto di vista architettonico da farti sviluppare una voglia di fuga abbastanza spinta verso qualunque alternativa disponibile.

Il risultato di questa combinazione si chiamava Pure Ecstasy fino all’inizio dello scorso anno, forzato fortunosamente in Pure X a causa dell’affinità nominativa con una cover band californiana; appena in tempo per dissociarsi da qualunque evocazione raver, ma soprattutto dissociarsi completamente anche da un punto di vista mentale: perchè la sensazione che si ha quando si ascolta "Pleasure" è proprio quella di una personality crisis interiorizzata ed assimilata per un lungo tempo, potenziale esplosivo nascosto all’ombra di una calma apparente, possibilità di crescita infinite (dipende dalla direzione che prenderà la casa discografica). Leggendo qua e là si scopre che il trio texano nasce immerso nella cultura skater del Ditch, un’area urbana a sud di Austin eletta da canale di scolo a Tempio Zen dello skating, un luogo di culto per la filosofia della semplicità e del basso profilo. Niente trucchetti, niente esagerazioni: le cose veramente eccezionali sono quelle con uno stile semplice, i tecnicismi eccessivi li lasciamo agli spacconi, sono una forma di masturbazione vanagloriosa e non necessaria. La stessa idea che permea le dieci tracce di "Pleasure", registrate interamente dal vivo e sans overdubbing, il che lascerebbe sperare non soltanto bene, ma meglio, perchè i ragazzi sanno suonare, non c’è neanche il pericolo di rimanere delusi dal live.

Abbiamo: un basso che vibra sotto i piedi e dentro il petto, riverberi disarmanti, testi poco arzigogolati, falsetto sussurrante assolutamente adorabile, un candore praticamente dimenticato e una copertina ammiccante a “Venus in Furs”, con l’aggiunta di una rosa; segnale che, tutte le influenze che i Pure X percepiscono vengono ingentilite, filtrate, personalizzate. Quindi se vi sembra di sentire i Jesus & Mary Chain, aspettate di addentrarvi oltre i primi tre minuti di “Voices”, “Easy” o “Twisted Mirrors” per rimanere sorpresi. Stesso discorso per “Half Here”, che suona come una outtake degli Yo La Tengo. Con queste premesse "Pleasure" si prepara ad essere il vostro disco dell’estate, quello da tenere in cuffia alla fine della giornata o un attimo prima di andare a letto; e va bene anche che sia soltanto piacere, e non estasi completa: quello che i Pure X vogliono lasciare è un sentimento di benessere, non un orgasmo violento. E’ il piacere prolungato di “Heavy Air”, appena sufficiente a sollevarti da terra ma non così incontrollato da sbalzarti per aria. E’ un’esperienza di riflessione ma senza pretese eccessive. Il segnale tangibile che le rimanenze di magazzino fanno un gran bene all’ispirazione musicale.

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