Amavo tantissimo i Queen quando avevo 13-14 anni. E amavo tantissimo questo disco, forse più del celebrato "A Night At The Opera" che tanto mi fece sognare e imparare nella mia primissima adolescenza. Poi venne la scoperta dell'hip hop, del grande pop inglese, del rock alternativo, del metal, della psichedelia e dei grandi classici della musica del dopoguerra, ma questo è un altro discorso. Il mio primo approccio alla musica fu a 8 anni con i Beatles: poi, subito dopo, vennero i Queen.

“Sheer Heart Attack" fu l'ultimo dei cd che comprai del loro catalogo, negli anni (1993/1994) in cui ascoltavo SOLO ed ESCLUSIVAMENTE loro, ma per ragioni ignote è anche uno dei pochi che mi sia rimasto nel cuore, nonostante la scoperta di "Monster" dei R.E.M. mi fece completamente ridefinire la mia crescita musicale e il mio modo di intendere il rock.
“Sheer Heart Attack" mi riporta ai miei 14 anni, l'ingresso al liceo, i miei primi goffissimi approcci con le ragazze, le prime crisi d'identità giovanili. La pioggia di Novembre. E' un album che ascolterei adesso solo nel caso piovesse, anche se so già che a metà dovrei spegnere lo stereo. Troppi ricordi di quel moccioso che ero e di cui ho comunque una certa nostalgia. E poi i Queen ora non riesco neanche ad ascoltarli, li trovo ridicoli e pacchiani, malgrado Mercury. Ma il riff di "Brighton Rock" ce l'ho sempre in testa quando improvviso con la chitarra, "Killer Queen" sarà sempre un classico delle mie compilation da ascoltare in autoradio, l'arpeggio di "Tenement Funster" sarà quasi sempre la prima cosa che suonerò non appena imbracciata la chitarra acustica, "Lily Of The Valley" è la ballata al piano che vorrei avere scritto io.
E poi "Flick Of The Wrist" è uno di quei pezzi che sembra quasi di conoscere da sempre anche se non lo hai mai ascoltato prima d'ora: perchè se c'è un esempio per potere descrivere al meglio cosa era il rock'n'roll nel 1974 e cosa succedeva a Londra in quegli anni,nulla può funzionare meglio di "Sheer Heart Attack". L'album è pervaso da un lacerante senso di decadenza, amaro sarcasmo, geniale follia e vampate di calore che sfociano una caldissima tensione erotica ("Now I'm Here", l'ironica "Misfire").
I testi, per la prima volta nella carriera dei Queen, sono a "misura d'uomo": oltre le esotiche visioni mercuriane di guerre destinate a non finire mai, di gigli di valle e dei sette mari di Rhye, si accostano quadretti di solitudine di periferia (i fantasmi del passato di Roger Taylor), di puttane e di papponi (questi ultimi molto probabilmente sarebbero i dirigenti della Trident), di fragilità e sottomissione interiore (il lamento di Brian May nella turbata "She Makes Me").
E poi, tanto glam: quasi a volere raccogliere il testimone da Bowie, che nel frattempo aveva scoperto l'America e il soul bianco. Schizofrenico come solo i dischi dei '70 potevano essere, l'album spazia dalla tragedia lirica di "In The Lap Of The Gods" alla sferragliata heavy metal di "Stone Cold Crazy" (un vero caposaldo del genere) per culminare nella farsa anni '20 di "Bring Back That Leroy Brown".
La stupenda, e velenosa, ballata "In The Lap Of The Gods...Reprise" viene interrotta bruscamente da un fragoroso fulmine scagliato da Zeus, che incenerisce qualunque suono per lasciare solo il silenzio e il senso di vuoto.

Con quel tuono, finiscono i Queen umili e genuini, che diventeranno un'altra cosa dopo il successo di "Bohemian Rapsody", finisce un album giustamente considerato il migliore della sterminata discografia del quartetto regale, e io… smetto di ascoltarli e inizio a crescere.

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