Trentacinque anni di carriera per una band sono tanti, a volte forse troppi. È un'utopia che tutto sia filato sempre liscio. I Queensryche non sono l'eccezione che conferma la regola.

Sono passati dalla gavetta producendo album rimasti ectoplasmi agli occhi dei più, ma si sono anche ritrovati al posto giusto nel momento in cui l'heavy metal melodico andava di moda e, loro malgrado, sono stati accostati alle volte a gruppi che poche stringhe di dna avevano in comune con loro. Hanno maturato fama e capacità musicali al tramonto degli anni ottanta, distinguendosi con il loro metal "artistico" ed elegante, muniti di influenze sempre più marcate che superavano gli argini del prog e si bagnavano di atmosfere vicine ai Pink Floyd così come ai Queen.

Sono stati certamente aiutati da madre natura e quindi dalla loro tecnica musicale, così come dalle doti del cantante Geoff Tate, capace di arroccarsi su falsetti con il cielo nel mirino e di modulare la voce cristallina sembrando a tratti una donna, o meglio una dea al microfono. Sono stati comunque amati od odiati da molti come capita abitualmente ai gruppi difficili da far propri ed hanno conosciuto un lento declino di notorietà a partire dall'era grunge fino ai giorni attuali. I membri hanno anche finito per separarsi in vari momenti ed è arrivata la tanto tradizionale diatriba su chi dovesse portare avanti il nome del gruppo, con tanto di due dischi diversi usciti contemporaneamente.

Quel che importa adesso è però parlare di uno dei loro figli prediletti. Quell' "Operation: Mindcrime" che rappresenta uno delle loro vette. Un concept album che ha fatto scuola e che ha partorito un seguito meno ispirato una volta compiuta la maggiore età (diciotto anni di distanza tra il primo ed il secondo disco).

Della storia dietro la musica poco mi importa, ma stiamo parlando di un vecchio limite personale di uno strano tipo che preferisce leggere libri o storie raccontate per immagini. Posso dire ad onor di cronaca comunque che ci sono complotti, sette segrete, attentati contro il governo, ed un protagonista sbandato che finisce per essere coinvolto da questi misteriosi piani di ribellione sociale. Non manca neanche la love story con la suora Mary, figura femminile archetipo della femme fatale, personaggio centrale di "Suite Sister Mary": undici minuti messi nel cuore della narrazione in cui viene utilizzata un'orchestra di violoncelli condotta dal compianto "arciduca dell'oscurità", ovvero il noto compositore Michael Kamen.

Si tratta alla fine di una delle tante gemme presenti lungo un ascolto colmo di brani anche migliori, che fanno a gara nel rincorrersi in quanto a perfezione, con un solo momento di minore ispirazione ("Speak"). Senz'altro risalta "Spreading The Disease", dove i ritmi marziali, le chitarre affilate e la voce a prova di raucedine ti conducono ad uno stacco parlato, dove viene attaccata la corruzione politica americana nell'anno 1988, e dove è facile riconoscere le stesse infamie di troppi governi attuali, globalizzati sotto l'egida del dio denaro. Se poi vuoi lasciarti sedurre definitivamente "The Mission" ti fa capire che si inizia a fare sul serio, con una continua tensione vocale e musicale che crea un effetto di sospensione, anche respiratoria, per i più impressionabili.

Più in là, sul finale, quasi come se non ce ne fosse bisogno, vengono sparate le due potenti ballate "Eyes Of A Stranger" e "I Don't Believe In Love", singoli apripista per un meritato successo mondiale, ed il gioco è completo. Lo scacco matto c'è stato e rimango a chiedermi quando ho perso l'orientamento e sono stato catturato.

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