"C'era una volta un fottuto Rick Dalton che inceneriva hippies strafatti e assassini vicino casa Polanski a... Hollywood", questo doveva essere il titolo dell'ultimo film di Quentin Tarantino.

La Nona tarantiniana.

Una sinfonia di colori elettrici e morte liquefatta, una elegia malinconica e criminale scritta in un cimitero campestre illuminato a giorno dalle insegne di una Hollywood fottuta nel cuore accoltellato dell'Impero, uno spettrale turbinio di immagini affogate in un secchio di acido lisergico però sfiammato, come il primo e ultimo quartino di Lsd che ho preso nella mia vita.

Ho il dvd. Trovato per caso, in edicola, sepolto fra riviste ingiallite, inserti stropicciati e romanzi di Amos Oz che nessuno comprerà mai.

Erano le quattro del mattino e la terza visione di fila quando, un istante prima che la musica di Batman iniziasse la discesa, ho premuto il tasto "eject", lasciando che l'impolverato lettore DVD sputasse via lo sballonzolante disco grigio.

Non ce l'ho fatta.

Avrei voluto piangere, come quando sei troppo emozionato e spalanchi la finestra per prendere più aria fresca possibile. Piansi nello struggente epilogo del Padrino - Parte Terza, dopo la sofferenza provocata dall'incedere paradisiaco ed estenuante dell'Intervallo della Cavalleria Rusticana che accompagna la cerimonia funebre dei Corleone. Le lacrime solcarono le mie guance per Novecento, gocciolarono lente e inesorabili per Il Cacciatore e per Kill Bill 2: non ferire mai ciò che non puoi uccidere. Non ho pianto per Scorsese, con The Irishman, ma so che lo farò quando l'avrò rivisto. Perché questo è il cinema. Questo è la settima arte. Nel buio, lontano da tutto, ritrovo me stesso cavalcando con l'inventiva di un bambino i fotogrammi che scorrono davanti allo sguardo estasiato di un ragazzo che, ormai, non crede più in niente.

Sarà la poesia a salvarmi...

Avrei urlato, poche ore fa, nella notte appannata da una nebbia fitta e crudele, avrei voluto gridare, come un folle, per poi correre sotto il nitido germogliare di Selene, e piangere. Piangere come uno stronzo. Ah, se la pioggia avesse trascinato via le mie lacrime... Una pioggia incessante, ma limpida. Pulita. Bella. Cazzo.

Quella di Tarantino, è poesia. Pura.

Egli vive della stessa linfa di Whitman, di Hemingway, di Joyce, di Salinger, di Faulkner, di Chandler, di Bukowsky; un suo film giace accanto alla Terra Desolata di Eliot, al Paradiso Perduto di Milton e alla Tempesta di Shakespeare. Pulp Fiction, Scarface, Quei bravi ragazzi e Bastardi senza gloria incastonati fra Come una bestia feroce e il Pasto Nudo.

"In questa città tutto può cambiare in un attimo" esclama un eccitato Rick Dalton nel trailer del film.

Sì, tutto è cambiato. E sono certo che il cancello che si allarga cigolando alla fine del film, sia quello del paradiso. Perché la strage é avvenuta. Il massacro, compiuto. Hollywood, e con ella il sogno americano, è finita nel sangue. Nessun viaggio psichedelico riuscirà mai a cambiare il destino. Nemmeno nella finzione cinematografica. La musica di chiusura è tristemente simile a quella di Rosemary's Baby, e Rick Dalton, Cliff Booth, Sharon Tate e gli altri sono tutti morti.

La quadratura del cerchio. Tutto sta morendo.

Il tritacarne che ha risputato Rick Dalton è stato costruito appositamente per sfruttare nel modo più completo possibile la sensazione di claustrofobia e smarrimento degli individui -una percezione dovuta alla crisi del concetto di comunità- e adoperarla a un solo scopo: l'accumulazione di capitale.

Vivere da comune cittadino a un passo da Hollywood significa stare a contatto con celebrità incantevoli e mostruose, vuol dire condividere la propria esistenza con l'accecante gloria spergiura di un apparato multimiliardario sigillato e inaccessibile, un immenso e tenebroso Moloch che semina la sua nera ombra su tutta la città, un leviatano grasso e deformato, caliginoso e intorpidito, che costringe le masse stanche ed esacerbate a dover fare i conti con la propria iniquità, giorno dopo giorno. Ora dopo ora. Innescando un gioco al massacro che finisce per coinvolgere tutti.

- "Sei un attore?"
- "Sono uno stuntman..."
- "Anche meglio..."
- "Sì? E perché?"
- "Gli attori sono finti..."

Mi sento di fare lo stesso discorso di The Irishman, con cui credo C'era una volta a... Hollywood abbia molto in comune. Anche in questo film le autorità escono a pezzi. Pensiamo a Cliff Booth e alla selvatica sua spregiudicatezza. Lui è il reale protagonista di questa stramba e stupefacente novella losangelina: "dannato" eroe di guerra, stuntman sterminatore di passera e vagabondo guastafeste, un ex soldato ora bandito, bello da perderci la testa e grezzo come la carta vetrata che rifinisce la carrozzeria di quelle spider rugginose e ammaccate che guida sull'asfalto corroso dal sole della California. Un cowboy dei nostri giorni.

Brad Pitt e Leonardo Di Caprio sono belli come il paesaggio che li circonda.

La riproduzione di un tempo ormai lontano come un sogno è quanto di più favoloso e sbalorditivo un regista potesse sperare di fare. Tarantino compie il miracolo di creare non solo la Hollywood di quei giorni, ma il 1969 stesso. Il suo universo ricercato e sofisticato trova compimento nell'estetica dozzinale delle palme mosse dal vento, fra le rughe dell'asfalto e i manifesti pubblicitari con i bordi raffazzonati.

In sala le orecchie dei presenti giacciono sul velluto incolore e graffiato del sottofondo delle radio. Le macchine sono quelle che furoreggiavano alla soglia del '70. Il rombo dei motori esplode nelle accelerazioni e si lascia ascoltare nel gorgheggio contaminato delle pause ai semafori. Sono vive. Lussuose Cadillac vissute, Porsche congelate nell'attimo di maggiore splendore, MG, Dodge, Volkswagen e Mustang tirate per il collo.

E noi, per due ore e trentacinque, abbiamo guidato quelle macchine, sorseggiato quei cocktail, fumato quelle sigarette, visto quei film e quelle serie televisive, conosciuto quelle autostoppiste... vissuto quel sogno.

Sì, c'eravamo anche noi.

Grazie di tutto, Quentin. Dal profondo del cuore.

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