Los Angeles, California, 1986: luci al neon, automobili veloci, colori sgargianti, vita di eccessi, voglia di metter in musica tutto questo...

Sembrerebbe comune a molti altri gruppi la storia dei Racer X, usciti da quel calderone infuocato che era la Città degli Angeli in quegli anni '80; gruppi come Mötley Crüe, Guns n' Roses provenivano tutti da quella zona della West Coast, portandosi con loro lo stile e l'immaginario di quel movimento glam che, insieme a tanti altri gruppi, avevano contribuito a formare e diffondere nel resto del mondo.

I quattro qui presenti scelsero invece di non accordarsi al carro dei vincitori, optando per uno stile "ibrido", a metà tra immagine glam e uno stile più veloce e grezzo (definito appunto speed); se a questo si aggiunge l'impatto che un personaggio come un certo Yngwie "sua umiltà" Malmsteen ha avuto sulla scena rock in quel periodo, la ricetta del combo californiano è servita: look glam, canzoni con l'acceleratore premuto e tanto shred. Eh sì, perchè Paul Gilbert a quell'epoca è un imberbe 19enne fresco di diploma al Guitar Institute of Technology di L.A. Finite le lezioni, e non prima di esser stato reclutato dai Black Sheep per la pubblicazione di "Trouble in the Street" nell' '85, decide di metter su una propria band in cui dar ulteriore sfoggio del proprio talento: recluta quindi il compagno John Alderete al basso (ora nei Mars Volta), il cantante Jeff Martin (proveniente dai Surgical Steel e futuro batterista dei Badlands) ed infine Harry Gschöesser alla batteria (dopo aver invano "corteggiato" Scott Travis, che entrerà in formazione solo l'anno seguente).

L'album è formato da 11 tracce per una durata di 35 minuti scarsi; tutte le canzoni si muovono sulle coordinate descritte poco fa, quindi velocità molto spesso esagerata, testi molto disimpegnati, voce al vetriolo e assoli fulminanti. Si parte con "Frenzy", breve intro strumentale in cui Gilbert dimostra fin da subito di che pasta è fatto; più avanti nel disco ci sarà spazio per un'altro brano interamente strumentale: "Y.R.O." (che sta per "Yngwie Rip Off", tributo mica tanto velato allo shredder svedese), in cui anche Alderete trova un breve spazio per dimostrare le sue capacità. La velocità e l'agilità sul manico della sei corde la fanno da padrone lungo tutti i brani dell'album, accompagnate dalla voce potente, ma a volte decisamente fuori controllo di Martin (basta ascoltare "Loud and Clear" per capire gli eccessi fino a cui il biondo cantante si spinge) e dal drumming potente e preciso di Gschöesser.

Gli altri brani variano dalla velocità della title-track (in cui sembra che la band voglia fare a gara con l'auto presente sulla copertina del disco) e di "Blowin' up the Radio", all'heavy metal più quadrato e roccioso di "Into the Night" e "Getaway"; fino ad arrivare alla chiusura dell'album, affidata al funk-metal di "Rock It", l'unico brano che si distacca dall'andamento generale delle altre tracce, concludendosi però, manco a dirlo, con un altro debordante assolo di chitarra. Proprio Gilbert, grazie a questo album, raggiungerà fama e notorietà ed entrerà con pieno merito nella categoria dei "guitar heroes" (quelli veri, non quelli del videogioco...); il giovane Paul dimostra però un talento ancora acerbo, avendo uno stile troppo legato agli insegnamenti dell'omaggiato "uomo delle nevi" Malmsteen: i suoi assoli sono spesso troppo tesi a dimostrare ottime capacità ed ostentare tanta bravura, e lontani dalla personalità e dal buon gusto melodico che raggiungerà solo qualche anno più tardi, con i Mr. Big prima e come solista poi.

Luci, velocità, eccessi, ostentazione... un pezzo della magnifica e maledetta Los Angeles degli anni '80 passa anche da qui.

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