Comincia l'estate, e io ho bisogno di frescura, di relax, di una leggerezza venata di malinconia, di suoni onirici ed ipnotici; ho bisogno dei tramonti, di astrarmi, levitare e galleggiare su una coltre di spuma refrigerante. Ho bisogno dei Rain Parade.

Mi accorre in soccorso "Explosions in the Glass Palace", l'EP successivo al loro debutto discografico.

È il 1984: il venerabile maestro David Roback (da leggersi Robbèck), suprebo chitarrista e membro fondatore, ha appena lasciato la band per dedicarsi ad altri progetti: prima il supergruppo Rainy Day, poi i Clay Allison, futuri Opal, con la sua dolce fiamma Kendra Smith. Ma i Rain Parade sembrano quasi non accusare il colpo, e sotto la guida di Matt Piucci sfornano un gioiello di 20 minuti che, rispetto a "Emergency Third Rail Power Trip", non ha nulla da invidiare.

20 minuti di rock e psichedelia sessantiani (Byrds in primis) filtrati dal post-punk: è il Paisley Underground, bellezza. Ma come traspare già dall'opener, "You Are My Friend", i Rain Parade, rispetto all'esordio, fanno proprio un approccio meno algido, più sentito e viscerale, con un'influenza power pop che richiama il Jangle di R.E.M. e soci: è un palazzo di vetro, scosso però dalle esplosioni. Su tutto il disco, inoltre, aleggia un'atmosfera triste e sconsolata, che emerge soprattutto a livello testuale - You are my friend, so sad this had to end, some broken things don't mend, they lie where they fall.

"Prisoners", una delle mie tracce preferite in assoluto, è uno splendido ricamo psichedelico alla Pink Floyd, che si dipana tra tensioni e rilasci dal sapore agrodolce; echi, rimbombi e commoventi tappeti sonori. Da "Blue", piccolo prodigio psychedelic pop sul colore della depressione e la scomparsa di una ragazza, si giunge a "Broken Horse", mesta e sontuosa ballata intrisa di sconforto e solitudine - A broken horse, and one by one I watched them run, they were my friends - e cesellata dagli ipnotici arpeggi di Steve Roback, e si conclude con quella che forse è la canzone summa dei Rain Parade: "No Easy Way Down". Nel testo un inno all'isolamento e all'alienazione, in musica un monumentale trip lisergico sorretto da un riff dal sapore vagamente orientale e un favoloso organo Hammond tarato su vette celesti, siderali, che ci riporta un attimo sulla Terra col refrain del chorus prima di darci il colpo di grazia con l'apoteosi dei violini finale. Un capolavoro della Psichedelia, un testamento del revival che fu il Paisley, elevato dai Rain Parade a minuta ricostruzione archeologica.

Ci guardano davanti al loro palazzo impreziosito dai palmizi, i quattro ragazzi dei Rain Parade, sotto un cielo di metallo rosato. Ma nella foto ci siamo anche noi: siamo una delle due persone che stanno passeggiando dietro al gruppo, catapultati in questo sogno losangelino da alcune delle stelle più luminose del Paisley Underground.

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