Pare che il termine blues derivi da un espressione vicina alla nostra "avere un diavolo per capello" (to have the blue devils), qualcosa simile allo stare male per una vita che non va proprio splendidamente. Ora, cosa abbia a che fare un giovanotto di El Paso, accanito fan della solare Blondie (della quale imita la chioma platinata), con la grama esistenza di schiene scure curve sui campi di cotone per pochi centesimi al giorno può sembrare un mistero. Ma l'infatuazione di Jeffrey Lee Pierce per la musica del diavolo ha radici profonde, quando da ragazzino aveva appeso il poster della sua diva nella camera e contemporaneamente sul piatto giravano i pesanti vinili dell'oscura tradizione del Delta (Robert Johnson, Charlie Patton, Skip James). Con i Gun Club aveva omaggiato quei maestri con allucinate versioni punk ("Preachin' the Blues") e io stesso ho apprezzato dal vivo la nera potenza della sua voce che era davvero impressionante per un uomo di piccola statura, che sembrava ancora più minuto al centro di un palco tra due smilzi spilungoni come Kid Congo Powers e Patricia Morrison. Credo che Pierce avesse assimilato nel suo inconscio e fatte proprie quelle tragiche storie intrise di morte, violenza, mistero e passione. Mi è capitato di vedere un video amatoriale di Jeffrey che suona con aria triste "Alabama Blues" in un appartamento olandese con le tende merlettate alla finestra, incapaci di nascondere le automobili europee ferme sulla strada, e allora penso che il suo destino non è poi stato tanto dissimile dai negri che cantano in un paese straniero il dolore per una mother of earth che non è più la loro. Completamente vestito di nero, i capelli corvini (il biondo platino è ormai un ricordo lontano), Jeffrey esprime la sua negritudine attraverso le murder ballads. La sua trasformazione è avvenuta: diventa Ramblin' Jeffrey Lee inventandosi un alter ego blues proprio come un altro viso pallido (John Fahey) aveva fatto anni prima con Blind Joe Death.
L'esigenza di fare un disco che mettesse fuori i suoi fantasmi Jeffrey la realizza lontano dalla patria verso la fine del 1991, quando già era uscito (con scarso successo) " Pastoral Hide and Seek" dei Gun Club. Recluta Cypress Grove (in realtà Tony Melik, nickname preso dal brano di Skip Jones) un giovane e bravo chitarrista con cui anni prima aveva stretto amicizia in un pub inglese e Willie Love (il batterista Simon Fish, nel giro Gun Club) e va in Olanda a registrare per l'etichetta francese New Rose (sempre sia lodata) ben nove covers di vecchi blues e due brani scritti da lui stesso.
Metto le mani avanti e dico subito che quando JLP affronta i " traditionals" in modo ...tradizionale non è irresistibile. Così la stessa "Alabama Blues" (Robert Wilkins), "Pony Blues" (Charlie Patton/Son House), "Long Long Gone" (Frankie Lee Sims), "Future Blues" (Wille Brown) danno l'impressione di non decollare come invece avrebbero potuto fare in mano agli "addetti ai lavori" che hanno speso la loro vita sulle dodici battute. Tanto per fare un esempio m'immagino una "Bad Luck And Trouble" (Otis Hicks) nelle grinfie di un vecchiaccio (bianco) come Seasick Steve e il trattamento incendiario che questi ne avrebbe fatto asciugandola all'osso senza rinunciare ai fuochi d'artificio. Ma il disco diventa improvvisamente magnifico quando Jeffrey decide di attaccare la spina agli strumenti, con gli amplificatori sparsi per le stanze dello studio in modo avere il suono più crudo e gonfio possibile. Allora rivediamo il "vecchio" Bad Indian che salta sprezzante a cavallo afferrandolo per la criniera e via! La trascinante "Goin' Down" (Don Nix) non avrà la potenza di fuoco di altre versioni più celebri (travolgente quella di SRV & Jeff Beck!) ma la cupa voce di Pierce frusta e accarezza allo stesso tempo, fa venire i brividi peggio di quando una donna ti lascia e vai sempre di più a fondo, eppure vedi uno spiraglio di luce nell'essere diventato finalmente libero.
Credo che "Moanin' in the moonlight" (Chester Burnett) sia il brano più rock che Jeffrey abbia suonato dai tempi d'oro dei primi Gun Club: gran lavoro della batteria, il giro di basso e le chitarre che mordono al limite del rumore, l'armonica sbuffa e Jeffrey chiede di non aprire quella porta. Però la mia preferita si trova tra le covers acustiche, quella sorta di gospel in falsetto di "Hardtime Killin' Floor Blues" (Skip James) sullo scarno tessuto di due chitarre. Siamo nei dintorni di una casa padronale del vecchio Sud secessionista data alle fiamme che allungano le ombre nere di chi assiste in silenzio alla scena spettrale, il triste e lugubre lamento di Jeffrey fa vibrare gli scheletri bianchi nella notte stellata come il soffio di uno scuro uccello notturno....quest'uomo non è normale, è la reincarnazione di qualche vecchio sciamano voodoo che emerge dalle tenebre con una testa rinsecchita e rimpicciolita sull'asta del microfono.
I due brani originali sono Gun Club al 100%. Così "Stranger in my heart" riprende lo scatto felino dei vecchi tempi, il giro psychobilly sinuosamente strascicato à la Cramps. Jeffrey si perde nella città in cerca della ragazza straniera che aveva nel cuore ma che era destinata a spezzaglierlo, i suoi versi sono tristi premonizioni di quello che gli riserverà il futuro: "... I was brother to your everyday life, now you hear me cry / Why did you change? Is there a stranger in my heart". Infatti la compagna giapponese Romi, bassista della band fin dai tempi di "Mother Juno" (1987), l'avrebbe lasciato per il batterista Nick Sanderson (mi sono sempre chiesto cosa c'entrasse il suo drumming spigoloso, retaggio dell'appartenenza ad un gruppo glaciale come i Clock DVA, con il calore dei Gun Club) e pertanto Jeffrey aveva perso un'altra buona ragione per abbandonare il mix di droga e liquori che l'avrebbe portato al collasso definitivo nel 1996.
Ma il capolavoro (che ci crediate o no) del disco non è una cover di Son House o di Charlie Patton, è un brano immortale di Jeffrey, quella lunga "Go tell the mountain" che avrebbe ispirato anche una sua autobiografia. L'andamento ipnoticamente dilatato della ritmica e Jeffrey che si aggira con circospezione come una pantera nera ai margini della wilderness gridando (ma lui non grida mai, modula l'estensione della voce) il suo dolore per un'amicizia che non c'è più. Stavolta la chitarra si lancia in un lancinante assolo che prosciuga l'anima, con gli occhi chiusi dondoliamo la testa assecondando le sferzate del wahwah che si diffondono dolcemente nel buio della sala...quando muore l'ultima nota è un pò come fossimo morti anche noi.
Che almeno la terra ti sia lieve, Jeffrey.
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