Se fossi un giornalista musicale, precisamente uno di quelli che: "non sanno scrivere che intervistano gente che non sa parlare per gente che non sa leggere" (cfr. zio Frankie), inizierei affermando che, dopo due ottimi dischi, era logico aspettarsi che Ray LaMontagne nel 2008 partorisse un capolavoro. Che cazzata, nemmeno Tonino Guerra con tutto l'ottimismo del profumo della vita avrebbe potuto immaginare che Ray raggiungesse così presto la perfezione.

 Non che i due dischi precedenti fossero brutti, anzi il contrario ("Till the Sun Turns Black" è un discone). E' solo che "Gossip in the Grain" è per davvero un capolavoro, uno di quei dischi che crescono ascolto dopo ascolto e poi vuoi ascoltarlo ancora, insomma uno di quelli che non ti stancheranno mai. Con la barba incolta e il camicione di flanella, il carattere schivo e solitario che lo porta a vivere in modo spartano con la sua famiglia, l'ex calzolaio del Maine, che fu folgorato sulla via di Damasco da una canzone di Stephen Stills ascoltata per radio, riesce a raccontare dieci storie una più bella dell'altra.  Hanno immediatamente tirato in ballo paragoni illustri: Van Morrison, John Martyn, Tim Buckley. Secondo me Ray LaMontagne è merce rara nel panorama musicale odierno, perché la sua voce dalla grana particolare è capace di creare un'atmosfera che ha un sapore di deja vù eppure non sapresti dire da dove esattamente provenga questa sensazione del già vissuto. Forse la caratteristica che lo accomuna a quei nomi ingombranti è la capacità di mantenere un livello emozionale eccezionalmente alto per tutto il disco, creando un "blend di marca" che non accenna a flessioni in nessuna delle dieci tracce.

Innanzi tutto si diverte a confondere le idee con il brano di apertura, la vivacissima "You Are The Best Thing" condotta da una arrembante sezione di fiati, coretti stile Stax e lui che canta come il Van the Man dei tempi migliori. Fatta la sparata iniziale, il resto del disco si rinchiude in un intimismo virile mai fine a se stesso. Ballate commoventi ("Let it Be Me") per l'interpretazione magistrale sospesa come una foglia tremolante sotto il peso della brina cosparsa dal lieve arrangiamento degli archi,  talvolta sopraffatti dagli strumenti a corda (ad esempio l'ukulele) come nella bellissima "Sarah", che ha il respiro delle storie epiche di sentimenti forti come il sapore di un liquore invecchiato in botti di legno e tirato fuori per l'occasione. Il fantasma del grande scozzese (John Martyn) è richiamato da composizioni che si aggrovigliano lungo spirali di fumo tremolanti ("I still care for you"). Qui la voce di Ray ha lo stesso modo di ammaliare del Guv'nor: un soffio scuro che nessuno strumento sarà mai in grado di riprodurre. Anche quando imbraccia la chitarra acustica per la lunga ballata "Winter Birds ", che non ha bisogno dell'avvolgente e allo stesso tempo soffice produzione di Ethan Johns, Ray riesce a convincere con una canzone che rimane nel cuore.

 Un disco intimista dicevamo? Sì ma talmente maturo che è capace di accelerare divertendosi come nel brano dedicato alla sua infatuazione per "Meg White" dei White Stripes, oppure nel country "Hey me Hey mama" , che inizia tra le risate e prosegue a far casino nel cortile tra gli accordi di banjo e trombone; o ancora come il blues nero di" Henry Nearly Killed Me", che ha il tempo e il respiro nervoso della locomotiva a vapore che traballa sulle rotaie e sbuffa attraverso l'armonica. Di nuovo tutto  si calma con la splendida "A Falling Through", che è una delle canzoni più belle che mi sia capitato di ascoltare ultimamente. Una gemma la cui luce è data dalla pedal steel e dalla magnifica voce di Ray, che ci attraversa il petto fino ad estrarre il cuore per poi aprire il pugno mostrandoci che, nonostante tutto, batte ancora.

Non vi preoccupate, un attimo dopo lo rimetterà a posto. Funzionerà meglio di prima.

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