E' da un po' di tempo che sono in crisi. Non riesco più a scrivere recensioni. Non come prima, almeno. Prima, in mezz'ora ne buttavo giù una fatta e finita, adesso impiego ore per scrivere quattro righe che poi sono sicuro scarterò. Ed allora metto su Tim Buckley.

Suppongo sia difficile scrivere una recensione su un disco di Tim Buckley. Perché lui, la sua voce parla ai tuoi pensieri, ed il pensiero, le emozioni, non sono facilmente definibili, né tantomeno esprimibili..."il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare", avrebbe detto Lucio Dalla.
Però... però adesso che ascolto le prime note della magnifica Happy Time sento che la mia bocca accenna un sorriso, senza nemmeno sapere perché. E subito guardo fuori dalla finestra, e subito mi pervade la malinconia, perché mi accorgo che sto inseguendo la tristezza, e mi sento solo, solo come un fiume, perché il mondo è la fuori, e non riescie a capirti...

E lui è lì, a parlarmi con la sua voce fatata. La sua voce che sta compiendo un percorso, non è ancora sperimentale come in "Lorca", nè tantomeno devastante come in "Starsailor"; ma allo stesso tempo è diversa da "Happy Sad", perché qui noi siamo accompagnati da otto composizioni intime, nelle quali ciò che più conta è il tutto finale. Tim pilota il suo strumento delicatamente, salendo e scendendo le scale, modulando prodigiosamente le corde vocali. E nei pochi luoghi dove non può arrivare, intervengono i soliti compagni, Carter Collins, Lee Underwood - che in Chase The Blues Away sfodera uno dei suoi migliori assoli -, Jimmy Madison, mai tanto evocativo come nei misurati colpi di I Must Have Been Blind e The River. Solo verso la fine, in Blue Melody e The Train, Tim Buckley ci mostra che la sua voce selvaggia è ancora lì, ed aspetta solo di navigare le stelle. Ma ora sta riflettendo, è un pomeriggio triste, troppo presto per salpare.

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