Dopo la triste dipartita di Hillel Slovak, i Red Hot Chili Peppers non si arresero alla sorte e trovarono un nuovo, giovane chitarrista; John Frusciante, un loro grande fan.

Il primo disco di questa nuova formazione è forse il più esuberante del gruppo, il più energico; di certo la chitarra gracidante di John fu necessaria a questo cambio di rotta verso suoni più possenti, ma anche meno unici. Nascono così divertenti pezzi di funk-punk dai forti lineamenti metal; il riff grezzo di “Good Time Boys” è quello che più si avvicina a quel genere. Anche l’estetica punk prende il sopravvento, ”Punk Rock Classic” ne è l’esempio, “Magic Johnson” è un buffo abbozzo hardcore unito alla forte comicità ed irruenza dei quattro; il fracasso distorto e velocissimo di “Nobody Weird Like Me” ed il folle riff di “Stone Cold Bush” sono tra i brani che si avvicinano di più al punk nell’intera carriera del gruppo. La seconda si rivelerà poi un gioiello nei live, con il suo assolo di basso e chitarra supportato dai gemiti di un atto sessuale.

In mezzo ci troviamo “Fire” una delle cover più belle mai fatte. Follia pura, ritmica sfrenata e canto isterico. Puro divertimento. Non tutte le canzoni però hanno questo piglio punk-rock; troviamo infatti la danza tribale di “Taste The Pain” e l’inno funk di “Higher Ground”, due canzoni in puro stile Peppers che comunque si distinguono nel loro repertorio per l’irruenza e l’urgenza comunicativa. I Chilis non ci girano attorno alle cose, sono consci delle loro capacità e tirano fuori ogni loro risorsa; nascono così canzoni straordinarie ed originali come “Subway To Venus”; ritmica folle, fiati strepitosi ed un cantato multiforme danno vita ad uno dei pezzi migliori del gruppo. “Knock Me Down” è una novità per il gruppo, considerato che si inserisce nel solco delle ballate elettriche intimiste; parla di come non si deva superare per forza i limiti (il riferimento è ad Hillel) e suona quanto meno dissonante, considerate le uscite colorite ed anche abbastanza immature (non necessariamente un difetto) del gruppo.

Altri due brani eccellenti sono “Sexy Mexican Maid”, ballata tropicale, rarefatta e assolutamente delicata, seppur si fregi di soli di chitarra e ritmi instancabili e addirittura il sax nel finale. Davvero superba. “Johnny, Kick a Hole In The Sky” è la lunga cavalcata finale; rap carico di pathos, atmosfera densa, toni duri e finale in crescendo. Va infine menzionata la dolce ballata strumentale “Pretty Little Ditty”, antesignana delle future hits melodiche del gruppo.

Insomma, “Mother’s Milk” è un lavoro diretto, spontaneo e disomogeneo. Tutto sommato, si può anche capire che il gruppo, appena rifondato, si trova immerso in varie influenze e, seppur il risultato è molto buono, non riesce ancora a tracciare il proprio percorso. Questo disco rimane un calderone di energia e divertimento, un cantiere aperto per sviluppi futuri.

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