A un certo punto, tutto nella vita sembra conseguenza di una grossa sindrome di Stoccolma. Ne sei pervaso e per quanto tu riesca a guardarti da fuori, non puoi fare a meno di amare i tuoi aguzzini. Coloro i quali ti tengono in catene. Siamo un po' tutti ostaggio di qualcuno, nel lavoro, in famiglia, nelle amicizie. Siamo ricattati da noi stessi e dalla persona che abbiamo voluto essere, dalle scelte che abbiamo costruito e che si riverberano in noi continuamente.

Così è anche la musica, e molti di voi potranno confermare. Siamo nelle dolcissime grinfie di quegli artisti che ci hanno rapito il cuore da ragazzi, e una nuova canzone dei nostri beniamini adolescenziali non la cambieremmo nemmeno con l'opera completa di Mozart. Passano gli anni, gli svolazzi della giovinezza perdono il loro momento, le membra si affaticano e ci piace adagiarci sulle zuccherine illusioni del giovanotto che vive ancora in noi. Ci rifugiamo nel porto sicuro, per suggere il latte di quella madre che ci ha nutrito. La dolcezza del nettare è tale perché quello fu il primo, e da esso iniziammo a realizzare il mondo intorno, a definire i nostri gusti. La nostra identità.

Ma. Ma. La sindrome non implica necessariamente una mancanza di visione critica. Ci possiamo dare ai piaceri più colpevoli nella piena coscienza di quanto siano fallaci, o meschini, poco rispettabili. Tutto pur di sopravvivere al produci-consuma-crepa. Prendetemi ogni cosa, ma in cambio chiedo un feticcio, un simulacro che ravvivi il bambino interiore. Andiamo avanti verso l'età canuta sempre più avvinghiati a quel poco o tanto di autentico che abbiamo provato, e se anche col tempo si consuma e decade, la fiammella dei ricordi, dei sentimenti giovanili, ci rende quel piacere sempre autentico (o quasi), intimamente nostro.

Supercazzola delle più astruse per dire che stavolta ho sentito qualcosa di diverso, che esula da questa sindrome. Dopo forse vent'anni in cui la musica della band ha risuonato in me come implicito rimando a un momento primigenio di innamoramento nei confronti di quella chitarra, di quel canto sgraziato, di quei quattro bruti, feriti e drogati a bordo di una Pontiac nel deserto (anno 1999), dopo tutti questi anni sento ora di poter scindere completamente il bambino rapito dall'uomo razionale, l'ascoltatore attento.

Il ritorno alla mensa dei sogni. Un passaggio di quelli memorabili, perché bisogna tornare indietro forse di decenni per ritrovare qualcosa di pari dignità e importanza. È il progetto di superamento di genere che nel 2002 ha dato risultati solo parziali, e nel 2006 si è attenuato in un enciclopedismo che ha parificato tutte le diverse istanze insite nella band. Poi una lunga interruzione, due dischi alieni, e infine la risurrezione di Cristo Frusciante. Un album di riscaldamento e ora finalmente il tassello, il ritorno ai sogni più spiazzanti e avvolgenti, l'ibridazione dell'identità al fine di un raggiungimento ulteriore. Più grande. Dopo quarant'anni non è scontato evolvere, e spesso lo si fa in direzione contraria. Ma non qui, non stavolta. Tutto si assesta, everything in its right place.

Dalla chitarra che divaga libera ai ritmi più infaticabili, i groove di basso, le squisite armonie vocali. Il pop postulato in By the Way, ma non pienamente realizzato, sfolgora adesso grazie a una maturità compositiva mai espressa prima su questi livelli. C'è una filigrana che lambisce il prog, quello più sottile e gentile dei Genesis (non tanto nelle strutture, quanto nella stratificazione).

Strofe a incastro, ritornelli compositi, variazioni, bridge, riff e code, sovraincisioni, ritmi synth e aloni elettronici, chitarre acustiche e sferzate telluriche, infatuazioni hippie e cinismo da strada, sussulti funk e gigantismi classic rock, paesaggi sintetici e calde folate blues. Le canzoni del disco uscito ad aprile erano più semplici e dritte, poi evidentemente jammando per mesi e mesi (pandemia) il mostro a quattro teste ha finalmente sputato fuori le gemme che serbava in sé da tempo. C'è un'evoluzione, a sessant'anni c'è ancora voglia di cambiare.

Una mensa, un buffet, ma con cibi e bevande questa volta accuratamente selezionati, preparati con profondo amore e cura, spennellati con il talento e la sapienza di chi dopo diversi tentativi ha imparato a lasciar fuori dalla tavolata le pietanze meno prelibate. Summa e superamento della propria arte "culinaria", raffinata nell'arco di 34 anni (con interruzioni forse provvidenziali per fare rigenerare la voglia, il desiderio musicale che per loro è un impeto direi sessuale).

Ho finito. Che questo sia il delirio della vittima nella sua apoteosi più sfrenata?

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