Essendo cresciuto nei 2000, i Red Hot sono stati una presenza costante nella mia vita sin da ben prima che potessi aver formato un mio gusto musicale. Nel 2016 avevo 18 anni, e la mia scoperta del gruppo era al suo apice. Va da sé che la notizia di un nuovo disco mi rese trepidante per molti mesi. Al primo ascolto fu sorpresa, al secondo perplessità, al terzo euforia; è per ciò che spero mi perdonerete se questa recensione vi apparirà sbilanciata o se doveste considerarla l’elogio di un album mediocre.

“The Getaway” è il primo album dei Red Hot a non essere prodotto da Rick Rubin, che lascia il posto a Danger Mouse. Il cambio si sente eccome, le atmosfere sono intime e sognanti, ma al contempo dinamiche e fresche; immaginate di prendere “Road Trippin'” e ascoltarla sulla ritmica di “Otherside”, aggiungete un tocco alla Tame Impala, et voilà; il paragone è un poco grezzo, ma la sostanza è simile.
Contribuiscono alle nuove sonorità l'aggiunta di synth anni '80, particolarmente eminenti in “Go Robot” e “Sick Love”, e passaggi di pianoforte decisamente azzeccati, che mai avrei pensato di poter trovare in un album dei Peppers.

Merita menzione anche il missaggio di Nigel Godrich, i suoni sono pieni e corposi, belli da ascoltare anche a volume alto, e non hanno niente a che vedere con la schifezza che è stata fatta con “Californication”.

L'album nel suo complesso pesca a piene mani dall'Indie Rock del decennio, laddove le chitarre si fanno certamente meno presenti, ma i pochi riff che si palesano sono potenti ed ipnotici, spesso più sporchi rispetto a quelli del mai dimenticato Frusciante: si stagliano su un ritmica essenziale, ma vitale ed avvolgente. Le armonizzazioni accompagnano senza strafare donando un tono melodico e fumoso ai ritornelli.

Kiedis mantiene il suo rappato su di una via di mezzo tra la sincope dei primi album e la melodia delle ballatone alla “Wet Sand” o “Californication”, ne risultano tracce vocali morbide ma ritmate, che anche dal vivo fanno la loro figura (e sappiamo tutti che con Anthony non si sa mai).

Il disco dà il suo meglio con “Goodbye Angels”, un fantastico climax che si libera in un slap di basso energico, sovrastato successivamente dagli altri strumenti (qualcuno ha detto “The Chain”?). “Dark Necessities”, e “The Longest Wave” sono certamente le migliori ballate, mentre “Detroit” ha un'energia grezza unica nell'album. Mi sarei sinceramente aspettato qualcosa in più dalla title-track in apertura, ma fortunatamente “Dreams of a Samurai” al finale ci mette una pezza lasciando un senso di sazietà e soddisfazione.

Le 13 canzoni, dispiegate in 53 minuti complessivi si susseguono una dopo l'altra senza che nessuna dia la sensazione di essere un riempitivo. Peccato per l'assenza di qualche traccia di interludio che avrebbe potuto dare respiro tra un pezzo e l'altro, e forse, dato al gruppo la possibilità di inserire qualche jam più libera.

I più nostalgici, coloro che fanno coincidere “Californication” con la fine dei Red Hot, potrebbero trovare questo disco decisamente troppo pop e troppo poco funk (probabilmente si rifiuteranno di ascoltarlo a dire il vero). Della pazzia dei primi lavori restano rimasugli qua e là, ma il tono, nel complesso, è riflessivo, pensato, più essenziale.

L’album, seppur non perfetto, si distingue fin da subito nella discografia dei Peppers, e mostra una capacità camaleontica di adattamento ai tempi, declinata in un rock nuovo, che a quanto pare può ancora trovare spazio in cima alle classifiche, a discapito di ciò che ci raccontiamo da ormai dieci anni.

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