Nei negozi di dischi di tutto il mondo dovrebbe esserci un settore dedicato unicamente ai Piccoli Capolavori Dimenticati. Un dimenticatoio delle produzioni audio (visive). Ovviamente, tale dimenticatoio, dovrebbe essere nascosto per benino e scovabile solo previa sofferta ricerca filologica ed esistenziale. L’auditore volenteroso sarebbe, allora, un novello Guglielmo da Baskerville, intento nella ricerca del prezioso manoscritto. Un po’ di sana, preparatoria selezione all’ingresso.

Questa la premessa necessaria per iniziare a parlare di una chicca psichedelica di un certo spessore, "Dancing To Restore An Eclipsed Moon".

È il primo lavoro dei Red Temple Spirits, gruppo losangelino attivo nella seconda metà degli anni 80 di cui si sa molto poco vista l’esigua produzione e la piccola parabola artistica che lo vede protagonista. Questi quattro ragazzi escono fuori direttamente da un sabba esoterico e spazzano via i fasti freakettoni della west coast per far calare un buio ipnotico su quella parte di terra ora governata (ahimè) da quel primate di Schwarzy. Debitori della scena dark-wave anglofona tanto quanto di una psiche-delia malata alla Charles Manson, condiscono i loro pezzi con sezioni ritmiche fortemente ripetitive e con chitarre affilate che evocano solitudini misticheggianti aiutate dai riverberi accentuati e dai ritmi tribali-ossessivi della batteria. Poi, a far quadrare il cerchio, ci pensa la voce praticamente atonale e dalla timbrica efebica di William Faircloth, capace di farti sentire freddo anche nel ferragosto di Venice Beach. Litanie rock, danze attorno al fuoco per indiani d’america che strizzano l’occhio ad un minareto in cima a Katmandu (vedi la bellissima Dreamings Ending).

Alla lunga, l’ascoltatore non avvezzo a siffatte paludi mentali potrebbe sentire l’odore di una certa ripetitività, certamente di una buona dose di angoscia, ma a queste latitudini sonore non sono richieste originalità trasversali alla Frank Zappa. Piuttosto si apprezza la complessità psicotropa delle composizioni e le atmosfere sincretistiche di quattro sacerdoti con il pallino dei riti ancestrali. Doveroso citare l’influenza dei primi Pink Floyd (e dei secondi… insomma quelli appena orfani di Barrett), ai quali è dedicata anche una riuscita cover di Nile Song, direttamente dall’album More, 1969. E, altrettanto doverosamente, bisogna collocare questo album tra i migliori di tutta la produzione psichedelica dello scorso secolo. In secula seculorum. Amen.

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