Siamo nel 1973 e mentre il mondo fuori andava a rotoli vede la luce uno strano personaggio che rimasto chiuso in un barattolo per 20 anni e 30 mila secoli decide di imporsi in modo del tutto originale all’interno del panorama musicale italiano. Nonostante un corpo segaligno e quasi emaciato dirompe e lo fa con un certo frastuono, il suo nome è Renato Zero.
In un periodo segnato da prepotenti dicotomie ideologiche lui non risulta essere politicamente schierato e proprio per questo motivo, sentendosi estraneo da quel mondo, sente l’impellente bisogno di crearsi uno spazio personale. Lo fa venendo meno a tutto ciò che di scritto c’era in quel tempo fondando la sua poetica su una forte ostentazione per la trasgressione e la diversità, che lo porterà in breve tempo ad un immane successo: uomini, donne, anziani e bambini, indistintamente dal loro ceto sociale lo seguono e lo sostengono.
Capace di creare un nuovo modo di proporre la musica, in modo ambiguo, irregolare e sfidando convenzioni, dove lustrini e strass ne fanno da padrone senza però venir meno ad un impegno sociale. Immettendo all’interno delle sue opere l’immagine e la spettacolarizzazione, sfruttando tutta la potenzialità uditiva e visiva del “teatro-canzone”. Tutto si mescola attraverso scenotecniche travolgenti e vistose, partendo dal guardaroba anch’esso strettamente connesso ai temi delle sue canzoni.
7 anni dopo “No, Mamma, No!” Renato zero pubblicherà il suo settimo album in studio che prende il nome di “Tregua”. Primo di una serie di doppi album, risulta essere l’opera più fresca e personale all’interno dell’intera discografia del cantautore romano con tematiche più che mai attuali, un linguaggio semplice ed efficace e pochi riempitivi nonostante le 18 tracce.
Si divide in tre filoni: autobiografico, sociale e religioso:
Se in un primo momento cantava “La favola mia”
“E mi trucco perché la vita mia
Non mi riconosca e vada via”
In tregua si passa a “Niente trucco stasera” dove renato attraverso un soliloquio decide che è forse il momento di cambiare, spogliarsi di manierismi eccessivi, di diventar meno artefatto tanto da aprire il tour del disco rinunciando al trucco per la prima volta:
“Che quest'uomo, sia un uomo...
Non la tua bestia rara!
Ti ho cercato...
Ti ho inventato...
Divertito, amato!
E vestito, da Pierrot,
Ho riso e pianto, più di un po'!”
Nel filone autobiografico seguono canzoni come “Grazie a te” e l’intensa “L’ultimo luna park”.
Sul versante sociale troviamo pezzi come “Non Sparare” contro il bracconaggio e il duo “Santa Giovanna” e “Onda Gay” due brani che cercano di essere vessilli di un modo di vivere autentico e sincero, lasciandosi alle spalle qualsiasi pregiudizio ed essere orgogliosi di ciò che si è e si sente di appartenere, a distanza di 40 anni sono più contemporanei che mai:
“Quanta paura ti fa
Quello che il mondo dirà!
Quell'etichetta, non c'è via di mezzo
E' pettegolezzo, o mania!
Sgualdrina, lesbica, o figlia di Maria!”
Troviamo poi pezzi più scanzonati e ironici come “Amore si, amore no” e “Profumi, balocchi e maritozzi” e quelli più celeberrimi come “Amico”.
E infine la tematica religiosa con “Potrebbe essere Dio” e quel piccolo capolavoro che è “Buon Natale”:
“Nessuno violentava
Quel sogno che per mano ti portava
Giocavi allo sceriffo
E per te un buono non era un fesso
E il bersaglio era finto
Non era un uomo steso sul cemento
Perché non fosse una parola il bene”.
L’album rappresenta una sorta di presa di coscienza da parte dell’autore, che non riuscendo più a sopportare il peso del suo alter-ego, esce sconfitto da quel duello interno che vi è tra uomo e artista.
Arrivato alla soglia dei 30 anni e stremato dal successo Renato Zero ha bisogno di una tregua, sia da parte del pubblico ma in primis da sé stesso.
Come suggerito dalla copertina, Renato Zero rinasce e in questa inconscia palingenesi umano-artistica non sa che una parte di lui morirà per sempre. Nei lavori successivi d’anticonformista e perturbante non c’è più nulla, solo stucchevoli moralismi esasperati soprattutto da una forte influenza religiosa.
Di Zero oramai non c’è più traccia.
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