Potente ed immenso appare il Reverendo, fin dalla sua creazione. E' il 1996 quando con riti arcani e leggende perdute viene a formarsi un trio destinato a lasciarci pagine importanti nella pietra più monolitica del doom metal. Si fanno chiamare Albert Witchfinder, Peter Vicar e Earl Of Void e nulla hanno in comune con il doom romantico dei primi Anathema o dei My Dying Bride. La loro è un'attitudine più classica, legata ai "cugini" Candlemass: esasperate al massimo la band di Messiah Marcolin e otterrete l'infuso malato che ha generato questo combo finlandese.

Già a partire dalla copertina si capisce lo stile e l'attitudine della band: un modo di suonare perfezionato negli anni da una serie di demo, prima dell'uscita di "In the rectory of the bizarre reverend" primo vero e proprio album in studio, pubblicato nel 2002.

Il collasso chitarristico di "Burn in hell" pone i primi paletti all'ascoltatore: un suono pachidermico scalfisce la resistenza umana per otto minuti, soltanto il preludio a quello che verrà in seguito. Dal testo emerge un forte senso di anticlericalismo e di rifiuto cattolico verso l'istituzione "Chiesa": motivi che si protrarranno per tutta la durata del cd. Atmosfera cupissima anche nella seguente e altrettano pietrosa "In the rectory", stemperata da un'improvvisa accellerata nel mezzo che dona alla song un retrogusto vagamente psichedelico e stoner rock. L'ignaro ascoltatore, già provato dalle due frane appena passate cerca riparo dalla caduta massi impietosa di "The hour of death" e "Sodoma sunrise", ma rimane ancora una volta schiacciato dalla pesantezza delle composizioni. Ques'ultima, si segnala anch'essa per una accellerazione centrale assolutamente coinvolgente e in sintonia con il rovinoso paesaggio circostante. Inoltre emerge chiaramente una certa dose di melodia e di minestra psych quando vengono a galla i soli chitarristici di Vicar. Infine arriva l'ascesa asfissiante a "Cirith Ungol", insieme un modo per celebrare la band di Baker e per esaltare la penna del maestro John Ronald Reuel Tolkien. Oltre 20 minuti di odissea tra pietre e sofferenza, evocata in modo perfetto dal sofferto e lancinante incipit della canzone. Forse tirata un po' troppo per le lunghe e a tratti monocorde, ma assolutamente coraggiosa per composizione e risultato finale.

Alla fine di questo lunghissimo viaggio tra brughiere dimenticate da Dio, riti mistici e pulsioni vagamente oniriche emerge la potenza compositiva di un debutto che ascolto dopo ascolto assume sempre di più le sembianze di un dolmen ancestrale e immutabile.

1. "Burn In Hell" (8:52)
2. "In The Rectory" (13:10)
3. "The Hour Of Death" (11:48)
4. "Sodoma Sunrise" (13:29)
5. "Doomsower" (5:37)
6. "Cirith Ungol" (21:10)

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