Cresciuto nei bassifondi di Brooklyn (New York), Richard P. Havens inizia a farsi conoscere agli angoli delle strade della Grande Mela cantanto hit-singles di doo-wop. All'inizio degli anni sessanta è un assiduo frequentatore di quella autentica fucina di talenti che è il Greenwich Village (Bob Dylan e Joan Baez... possono bastare), il motore propulsivo della contro-cultura americana, che darà il via alle istanze di cambiamento da parte di tutti i giovani del mondo (ricco ed occidentale...).

Il giovane afroamericano riesce ad incidere due lavori fra il ‘64 ed il '66, grazie ai quali viene notato e messo sotto contratto dalla MGM Records, che aveva appena creato la Verve Forecast, etichetta dedicata esclusivamente ad incisioni di folk.
Da questo connubio, nel 1967 esce "Mixed Bag", da molti ancora oggi considerato il suo miglior lavoro in studio, un album incredibilmente intenso e passionale; dove Havens circonda le sue tre canzoni originali (parsimonia creativa che si porterà dietro per tutta la carriera) con una serie di rivisitazioni di brani (alcuni celebri altri un po' meno) molto personali e sentite, quasi a volerle interiorizzare, facendole proprie e restituendocele rivestite da una nuova anima. In questo senso è perfetta la conclusiva "Eleanor Rigby", dove il mood del brano rimane pressoché identico, ma l'austera intransigenza della versione originale dei Beatles, viene smorzata dalle flebili trame di pianoforte che insieme ad una marziale batteria "jazzata" ed un basso deciso sostengono la profonda e sofferente voce di Havens dove si inserisce perfettamente la pennata vigorosa della sua chitarra. Alchimia che sublima alla perfezione nell'opener "High Flyin' Bird" del cantante country Billy Ed Wheeler, dove la voce malinconicamente rocciosa di Havens attraversa, fiera, quattrocento anni di schiavitù nera americana, sovrastando in pathos persino l'atmosfera robusta ed austera del brano. Tensione, malessere e rabbia, ma anche gioia e speranza, entrano ed escono dalla voce del "folk-crooner", meravigliosamente modellata a seconda dei temi portanti dei brani, tanto da essere forte e rassicurante nella rivisitazione easy-listening che fa di "I Can't Make It Anymore" di Gordon Lightfoot o calda e morbida nella "Morning, Morning" del Fugs Tuli Kupfenberg; mentre una fumosa tensione da club esce in brani come "Sandy" e "San Fransisco Bay Blues".

Ma il meglio deve ancora arrivare. Il connubio di psichedelia e folk messo in atto da band californiane come Kaleidoscope e Country Joe & The Fish, in "Adam", vive della stessa anima con Richie Havens che cerca di percorrerne la medesima strada ma con la fierezza un po' stizzita di un newyorkese, che ha il cielo a fettine fra i grattacieli al posto dell'azzurro che sprofonda nel blu dell'oceano con alle spalle il verde e l'arancione delle colline di aranceti quale morbida abitazione per le sperimentazioni lisergiche westcostiane. "Follow" è una ballata 100% dylaniana, confezionatagli dall'artigiano della composizione Jerry Merrick, sorta di omaggio a Robert Zimmermann, che diventa vero e proprio tributo nella rigorosa cover di "Just Like A Woman". "Three Day Eternity" di Jesse Fuller è il brano più debole del disco, una sorta di versione folk dei crooner miliardari di Las Vegas, valida solo per mostrare ulteriormente la versatile duttilità della voce di Havens mentre "Handsome Johnny" merita un discorso a parte. La ballata pacifista è il brano che darà il via al Festival di Woodstock ed a Richie il trampolino di lancio per una lunga e proficua carriera, un brano completamente inserito nel periodo in cui è nato, che esprime appieno le istanze di pace e cambiamento che ancora dovevano naufragare e che ci regala quella vibrante tensione che scorreva per le strade e nelle vene di quel paradiso perduto... e che a me piace incastonare esattamente a metà fra il profetico seme di "The Times They Are A-Changin" e l'apocalittico frutto di "Ohio".

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