Il 15 agosto 1969 alla fattoria di Max Yasgur a Bethel, nei pressi di Woodstock, si vede una folla oceanica che man mano si ammassa in trepidante attesa dell´inizio dei tre giorni di pace, amore e musica che cambieranno per sempre la storia del rock. I tre giorni che hanno segnato contemporaneamente lo zenit e il crepuscolo del movimento controculturale della Summer of Love.
Il popolo Hippie accorso da ogni dove e con ogni mezzo a sua disposizione per partecipare a questa “crapula” epocale è di numero imprecisabile. Conta solo sapere che questa moltitudine è tanto vasta da aver completamente paralizzato ogni via di accesso all´area del concerto. I trentadue musicisti che si devono alternare sul palco sono tanto in ritardo da far saltare la scaletta delle esibizioni.
Ormai sono le cinque del pomeriggio e la sezione di musica folk che deve aprire il concerto non è ancora cominciata. Gli Sweetwater sono rimasti bloccati in un ingorgo a doppia croce uncinata. I “figli dei fiori” intanto sono già tutti in trip grazie ai fiumi di LSD orange sunshine e cominciano a dare segni di grande impazienza.
A salvare capra e cavoli ci pensa un omone barbuto di quasi due metri che, fasciato in un dashiki arancione e calzando sandali africani ai piedi, sale sul palco imbracciando la sua chitarra acustica. Il suo set prevede una manciata di brani. Invece deve suonare per quasi tre ore eseguendo con grande energia brani personali e cover dei Beatles, fino a quando ormai stremato e grondante sudore parte con la versione a dir poco incredibile del gospel “Motherless Child” dove aggiunge la parola freedom che viene ripetuta ad libitum, quasi come fosse un mantra. Una parola semplice ma allo stesso tempo potente come un’invocazione: l´urlo di schiavi in rivolta, ma anche la speranza degli oppressi capace di incendiare il cuore di migliaia di giovani e spingerli a voler cambiare il mondo. Questa straordinaria esibizione lo consegna alla storia della musica cristallizzando e, per alcuni aspetti, condizionando l´intera carriera di un musicista in realtà molto più profondo e complesso.
Richard Pierce Havens, nato il 21 gennaio del 1941 a Brooklyn e cresciuto nel ghetto di Bedford Stuyvesant, partendo da una formazione musicale gospel e doo-woop, si fa apprezzare rapidamente sulla scena folk del Greenwich Village grazie alla sua grande perizia chitarristica basata sugli open tunings (accordi aperti) e uno straordinario senso del ritmo, oltre che per uno strepitoso strumming, ossia la tecnica che vede l´uso del pollice per gli accordi e del piede in stile foot-drum per tenere il ritmo, ma soprattutto per la sua unica e riconoscibilissima voce calda e “fumosa”.
“Something Else Again” è il suo secondo album folk in studio, pubblicato nel dicembre del 1967, prodotto da John Court e Jerry Schoenbaum per la Verve Forecast Records.
La formazione vede Havens spadroneggiare alla chitarra, al sitar e tanpura, alle percussioni bongos, ma anche come voce solista; Adrian Guillery e Paul Williams alla chitarra elettrica; Warren Bernhardt al pianoforte, clavinet e organo; Jeremy Steig al flauto; Eddie Gomez al basso acustico; Don Payne e Denny Gerrard al basso elettrico; Donald MacDonald e Skip Prokop alla batteria; Daniel Ben Zebulon ai congas e, infine, John Blair al violino.
Le dieci tracce di questo gioiellino folk partono da “No Opportunity Necessary, No Experience Needed ” dove la chitarra ritmica di Richie trova spinta e sostegno nel groove percussivo del piano di Bernhardt.
Ecco “Inside of Him”, ma anche “Sugarplums” (J. Court) dove prevale un atmosfera delicata e notturna. La magia scaturisce tutta dalle note del flauto di Steig con il contrappunto del piano e della calda voce di Havens.
Il brano “The Klan” (A. Grey/D. Grey) diventa una potentissima ed esplicita denuncia alla campagna di terrore scatenata in quegli anni dal KKK: “He who rides with the Klan he is a devil and not a man. For underneath that white disguise. I have looked into his eyes. Brother, stand with me it's not easy to be free”.
“Don't Listen to Me” è un invito a lasciarsi andare, a fidarsi. La musica si colora di una miscela funk, a tratti quasi fusion con Havens che duetta mirabilmente con organo e clavinet.
L´incipit del lato B “From the Prison” vede il ritorno al folk più classico, con un riff sulle note basse della chitarra, che nel testo esprimere l´invito a tutti coloro che sono prigionieri, in senso metaforico e non, a riconciliarsi in primo luogo con se stessi prima di riavvicinarsi al mondo esterno per dare tutto l´amore di cui si è capaci.
Segue la cover della dylaniana “Maggie´s Farm” che ad esser sincero mi fa rimpiangere la versione originale del Menestrello di Duluth. A mio avviso è il brano meno incisivo di questo disco.
Ma con il suo brano “Somethin' Else Again” il nostro eroe si riscatta subito alla grande. Il pezzo, sulle note del sitar, della tanpura e del flauto, è il più immaginifico dell´intero album. Non ci dimentichiamo di ringraziare sempre Ravi Shankar e il suo adepto George Harrison per la lungimiranza con la quale hanno divulgato il “verbo” del ritmo e delle melodie indiane. Ascoltando questo pezzo di sette minuti e mezzo sembra quasi di sentire il profumo dell´incenso e di veder ballare i “figli dei fiori” lungo le rive del Gange.
“New City” (R. Havens/J. Court) è una ballata melodica e di piacevole ascolto.
Il traditional “Run, Shaker Life”, riarrangiato dallo stesso Havens, chiude questo album con un taglio ritmico che lo fa accostare alla sua “Handsome Johnny”. Il testo è esplicito: “Run, Shaker life, shake life eternal. Shake it out of me, all that is carnal”. In questo “pezzone” si può percepire chiaramente la magistrale tecnica chitarristica di Richie.
Havens ha dedicato gran parte della sua vita alla musica, collaborando con altri grandi musicisti in tutto il mondo, ma anche a sensibilizzare i giovani sulle tematiche ecologiche e sociali. Negli anni '70 ha contribuito alla fondazione del Northwind Undersea Institute, che coinvolge i bambini nello studio della natura per far loro percepire in modo diretto come si possano apportare dei cambiamenti positivi partendo da semplice gesti come piantare un giardino in un terreno abbandonato, imparando ad assumere un importante ruolo diretto nella tutela dell'ambiente.
“Sometimes I feel like a motherless child. A long way from my home … Freedom …”.
Buon ascolto dal vostro DottorJazz.
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