La risposta per i Rise Above Dead è la sottrazione. Non ci è dato a sapere se siano brillanti menti matematiche, ma se c'è una cosa in cui questi ragazzi di Milano son in grado d'eccellere è quella di mutare completamente forma da un'uscita all'altra. A partire dal 2010 con "Human Disintegration" i nostri si son posti la sfida, non semplice, di evolversi costantemente verso un qualcosa che possa costruire un'identità precisa, nonostante la verve camaleontica. È in questo spirito che dalle radici di matrice crust-hardcore si arriva a "Heavy Gravity" passando per un validissimo primo full length come "Stellar Filth" che aveva lasciato presagire ottimi segnali per il futuro. Dunque, vi chiederete, che c'entra la sottrazione? Beh, semplicemente di quel sound primordiale delle origini è rimasto poco o nulla, ma anche il post metal/sludge dell'uscita successiva doveva essere affinato e la risposta i Rise Above Dead la trovano togliendo la componente vocale. Si apre l'orizzonte strumentale. Una tappa che fa da spartiacque, spingendo il gruppo in nuovi scenari. Obiettivo raggiunto? Direi proprio di sì.

L'uomo che si staglia lì in mezzo pare esser il Dr.Manhattan del Watchmen di Alan Moore e il sound incarna completamente l'atmosfera di un bel trip spaziale. Si può sempre chiedere una riedizione d'Interstellar con la loro soundtrack, Hans Zimmer permettendo. Scherzi a parte, una volta dimenticata la ruvidità tipica dell'hardcore, non significa però che ci siano state concessioni dal punto di vista dell'energia sprigionata. I riff son ancora possenti e hanno nelle proprie corde dei rimandi inevitabili a Cult of Luna, AmenRa, Isis e compagnia bella, ma non si è al cospetto di un banale copia/incolla. D'ispirazione ce ne è tanta, a pacchi, grazie anche a una fluidità nel cercar di intrecciare le due entità che da sempre contraddistinguono i Rise Above Dead. La prima che cerca di marciar irreprensibile e risoluta, come se si marciasse in un deserto rovente e l'altra che fa aprire lo sguardo proprio verso i cieli stellati, connotando in modo trascendentale i paesaggi disegnati dalle fitte trame chitarristiche. Il quid vincente di "Heavy Gravity" viene dalla capacità di non perdersi troppo in strutture fin troppo cerebrali, ma di mantenersi su delle coordinate piuttosto dirette e d'impatto, mostrando un gran songwriting che è l'ossatura di un viaggio in equilibrio fra delicati attimi dai sussulti post-rock e scenari apocalittici fra realtà e dimensioni parallele. C'è da chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da una certa psichedelia surreale che riesce a esplodere fragorosa in più di un'occasione, sotto il peso di granitiche ritmiche e accelerazioni trascinanti.

Melodie riflessive soffiate via da ventate emotive d'escalation sonore riescono a far sì che i Rise Above Dead possano calibrare per benino il loro tiro e giungere al capolinea di "March of the Locust" senza che ci si sia accorti del tempo trascorso, complice anche un minutaggio non troppo elevato che non si perde fra inutili orpelli riuscendo a centrare il bersaglio, coinvolgendo dall'inizio alla fine, e costruire un contesto visionario affascinante. Nonostante sia solo il secondo full length i nostri, non che ci aspettassimo altro, han messo in mostra ancora una volta una notevole maturità e personalità che in un genere come questo, talvolta inflazionato, non è semplice far uscir fuori. Avanti così. Si potrebbe dire sky's the limit, ma i Rise Above Dead stan viaggiando oltre da un paio di anni, alla faccia della gravità.

Carico i commenti... con calma