Parliamo di un momento di transizione, nella biografia di Vecchioni, ma di un album tutt'altro che di transizione, invece. Un vero gioiello, per me, il suo secondo migliore album in assoluto. Seppure l'impressione di essere di fronte ad un grande lavoro l'ho avuta da subito, ci ho messo tempo a capirlo, c'è voluta confidenza, tanti ascolti ed un po' di fantasia. Non è un album semplice, forse è il più criptico, uno degli ultimi prima di scegliere una poetica più limpida e schietta. 

Per capirne il senso più intimo basta ascoltare bene la 'title-track', un brano parlato in cui tra strani riferimenti ci si riferisce ad un poeta intellettuale che ricerca valori di bontà e purezza, in un passato forse da idealizzare. Quello che è invece noto e manifesto per tutto l'album è l'estraneità, l'allontanamento dal presente, l'esclusione dagli affetti e da tante tendenze importanti negli album precedenti. L'ultimo, prima di questo, si chiudeva con un brano insolito per la cupezza e la disperazione, 'L'ultimo spettacolo', in questo non troviamo il bilancio della nuova vita, dopo quella delusione, non si fanno riferimenti a questa storia, cose che invece succederà, esorcizzandola, forse, in 'Robinson' e soprattutto in 'Montecristo' dove la questione verrà passata 'ai raggi x'. Questo è l'album delle cose non dette, delle assenze, della lontananza.

'L'estraneo' è appunto ossessionato dal ritrovare una capacità di amare, una espressione in ogni esperienza che invece si rivela vana, anche se, sullo sfondo appare una figura rassicurante, necessaria, per quanto forse soltanto una speranza, così 'Stranamore' elenca tanti amori alternativi, che pero' non sono quelli dell'affetto, che è stato perso, davanti alle tante sconfitte che l'uomo incontra per soddisfare la sua sete, c'è tuttavia un lieto fine, un frutto, una figlia, qualcosa di bello, che rimane.

Il brano che più di tutti fa da chiave di lettura per l'intero album è forse 'Il castello', uno story-telling apparentemente fuori tema, narra di una fata abbandonata dal suo uomo, che aspetta. In realtà io ci vedo la trasposizione della vicenda personale, qualcuno che rimane solo, qualcun altro che è partito, o che forse non c'è stato mai davvero.

Sono più chiari i brani 'Sette meno uno', dove si narra la storia di un uomo scomparso, partito per non tornare, appunto, per non tornare alle convenzioni, alle cose credute vere che poi non sono diventate certezze (l'affetto coniugale?), e 'Ninni' dove c'è l'altra faccia dell'album, la ricerca di 'nuovi' valori antichi, puri. Qui viene appunto idealizzato il passato, tanto da far incontrare Vecchioni con la sua famiglia di venti anni prima, nella storia dell'album è chiaro come sia un tentativo di tornare a delle certezze, ad un modello famigliare riuscito e saldo, ad un passato caldo ed accogliente e rassicurante per evitare di fare un bilancio su un presente di dubbi, confusione, infatti il suo matrimonio si sarebbe rotto di lì a poco, ma non lo era ancora, e quindi l'incertezza e l'ambiguità dominano nei brani di questo periodo.

Gli unici brani che non ho citato sono 'A te', storia di un abbandono, ed 'Il capolavoro', quest'ultimo è un brano che amo molto e che contribuisce a rendere quest'album un'opera importantissima. Un Vecchioni con le spalle al muro, senza più donne da cantare, con una situazione familiare difficile, un album quindi cupo, difficile, tutto l'opposto dell'altro grande capolavoro vecchioniano 'Elisir', dove i problemi erano ben altri, e la certezza della vita quotidiana gli permetteva di interrogarsi su sistemi più complessi, sulla coerenza artistica come quella della vita di ogni giorno. Due album molto diversi, ma appunto i due migliori episodi del Vecchioni '60,'70 ed '80. 

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