James "Jimmy" Dewar (nato a Glasgow nel 1942, morto nella stessa città nel 2002) è un musicista abbastanza conosciuto in ambito rock ma non certo famoso. Succede, quando si ha un talento speciale ma una faccia qualunque ed un carattere timido ed umile, quando si possiede una voce incredibile ma nessuna inclinazione alla spettacolarità ed all'estroversione, sulla scena come con i media. Per gli addetti ai lavori e gli appassionati di rock blues Dewar è però, senza distinzione, uno dei più grandi.

Jimmy aveva iniziato negli anni sessanta come chitarrista, passando al basso ed al canto quasi per necessità: di indole gregaria e non competitiva, aveva cominciato a farsi notare dietro il microfono solo allorquando doveva sostituire, temporaneamente, il cantante del gruppo dove suonava che aveva dato forfait. Grande fu l'intuizione di Trower di smettere di puntare su frontman di ruolo per affidargli tutte le incombenze vocali, nella nuova band allestita nel 1973 per rilanciare la sua carriera nell'ambito del rock chitarristico, dopo tutti quegli anni passati ad accompagnare, sempre più di malavoglia, le onnipresenti e invasive tastiere dei Procol Harum.

Questo è l'album della riscossa per il chitarrista londinese: dopo una prima uscita targata 1973, altrettanto valida ma di poco clamore e scarso successo, quest'opera dell'anno successivo, chissà perché, imbocca da subito la strada giusta e sfonda addirittura in America, là dove ad esempio i Procol Harum non erano riusciti a combinare nulla con ben sei dischi. Il trio di Robin Trower, completato dal batterista di colore Reg Isidore, diventa in quegli anni uno degli act più richiesti e seguiti in giro per il mondo andando a colmare, meglio di tutti gli epigoni consimili, quella voglia di rock blues hendrixiano, istintivo e animoso che la malaugurata, prematura scomparsa del genio di Seattle aveva generato.

Ma se Trower è il capogruppo, l'ispiratore ed il faro della situazione, Dewar è il valore aggiunto inestimabile per le fortune di questa banda. I maestri neri Ray Charles e Otis Redding hanno insegnato a questo loro ennesimo, ottimo allievo, proveniente dal freddo ma passionale nord britannico, come si fa a far passare per intero la propria anima attraverso due corde vocali, farla risuonare all'interno di un naso e modularla in una cavità orale, per rivelarla infine in un cantato ricco, profondo, sabbioso, rigoglioso, appagante.

Senza il minimo svolazzo o smanceria, in maniera del tutto istintiva e naturale (ma ci vogliono ovviamente, oltre al grande cuore, attenzione e applicazione) il buon Jimmy riveste i (peraltro normalissimi) testi del repertorio come fossero passi omerici. La pasta della sua voce ricorda tanto quella del ben più celebre, fortunato e, beninteso, di sette anni più giovane Paul Rodgers (Free, Bad Company, Queen) ma... è meglio! Più sulfurea e scavante, meno gigiona e compiaciuta.

I classici di repertorio contenuti in quest'opera, quelli ancor oggi obbligatoriamente eseguiti da Trower in concerto altrimenti il pubblico fischia, sono tre. Il primo è l'apertura "Day Of The Eagle", che espone uno dei riff (in DO diesis!...tonalità disagevole per la chitarra) più geniali e trascinanti del rock. Talmente bello che il gruppo si fa un giro completo strumentale strofa e ritornello, prima che Jimmy soffi la prima strofa al microfono. Robin imperversa hendrixianamente col timbro deciso ed analitico del magnete centrale della sua Fender Stratocaster, perfetto per il suo stile. Il ritmo è ossessivo, poi la canzone svaria in una dilatazione finale a tempo lento, con una coda che va a sfumare sugli ultimi singulti della chitarra solista.

Il secondo classico è la canzone che intitola il disco, un blues cadenzato da un sublime giro di chitarra che ha la lentezza e la tetragona inesorabilità di una colata lavica. Le dita di Trower cercano il pelo nell'uovo sulla tastiera, esplorando microritardi temporali e vibrato microtonali d'alta scuola. Per lui il tocco è la priorità assoluta, nessuna nota dev'essere presa di passaggio, consumata in un gioco di sponda per arrivarne ad un'altra... lui ad ognuna di esse vuole montarci sopra, farla sua e plasmarla secondo l'umore di quell'attimo. La canzone è poi fatta apposta per la voce di Dewar, profonda come non mai mentre "sospira" il testo, onorando compiutamente il titolo ("Ponte dei Sospiri").

Terzo punto focale in scaletta è l'entusiasmante "Too Rolling Stoned". I riff di basso e di chitarra, diversi fra loro, s'intersecano magnificamente in un felicissimo incastro ritmico. Il brano rotola veloce e dinamico per qualche minuto, subendo poi un nuovo, drastico rallentamento, portato avanti da un riff nuovo di zecca e dalla solita coda strumentale.

"In this Place"è di nuovo un pezzo lento e rarefatto, stavolta nell'inusuale (per il rock) metrica di tre quarti. Fecondo l'arpeggio di chitarra ed ancestrali le vibrazioni della gola del bassista, e via così. "Little Bit Of Sympathy" è invece funkeggiante e godrà anch'essa nel tempo della stima e fiducia del chitarrista, che la suonerà parecchio nei concerti.

Questo vecchio maestro della sei corde, pioniere di suoni e tocchi sublimi, ha avuto a che fare con altri cantanti (il mitico e lunatico Jack Bruce, e poi Dave Bronze, Davey Pattison...) , ma la vera ed unica voce della Robin Trower Band resta il grande Jimmy Dewar. Queste poche righe sono anche e soprattutto in sua memoria, e più in generale in onore di tutti quelli che non se la sono tirata e non se la tirano (in totale controcorrente rispetto all'andazzo musicale ed artistico in genere), ma hanno fatto, e fanno ancora, del gran bene alla gente che li sa ascoltare, ai musicofili, a tutti quelli con il cuore collegato prima alle proprie orecchie che ai propri occhi, come sempre dovrebbe essere per potersi definire appassionati di musica.

Carico i commenti...  con calma