Introduzione:

La storia di Robin Trower è simile a quella di Gary Moore, per tenerci su gente abbastanza famosa: chitarristi di forte personalità e stupendo approccio allo strumento che iniziarono entrambi il mestiere suonando quello che era di moda al tempo, per poi fregarsene altamente e mettere su, con successo, una seconda parte di carriera ben centrata sulle loro personalità e per larghissima parte devota alla grande loro passione: il blues.

Blues suonato alla maniera rock e quindi iper amplificato, potente, atmosferico, anche virtuoso.

Il blues rock è una musica difficile con cui proporsi. Già costretta com’è dalle circoscritte regole armoniche del blues (che limitano l’universo melodico e armonico da cui attingere e non catturano gli ascolti più impreparati e distratti, costringendo il genere ad una dimensione di nicchia), rischia poi anche l’appiattimento nella obiettiva monoliticità e rigidezza dell’hard rock, un genere che sa arrivare facilmente allo stomaco ma più difficilmente al cervello.

Per uscirne, non essendo dunque a disposizione la via tematico melodica, resta quella esecutiva, quella dell’anima. Per essere dei grandi in questo genere bisogna suonare, e cantare, in un certo modo, quell’unico modo col quale il rock blues può scavare l’animo ed arrivare a parecchia gente, non moltissima ma abbastanza.

Ecco, Trower è un musicista capace di questo. “Entra” clamorosamente nelle note che suona, una per una, le prende come non ci fosse un domani, se le lavora con il plettro e le dita, condendo lo sforzo con continue, buffe smorfie, spingendo continuamente il suo cuore fino alla punta di falangetta, dosando sapientemente la leva del tremolo, l’effettistica ai suoi piedi, l’interazione delle sei corde con tutta quell’aria spostata dai coni della sua fila di amplificatori, per tirare fuori ogni possibile sfumatura, per pennellare il suo rock senza abbassarlo a mero ritmo, o fragore, o ripetitività.

Il suono: ogni grande chitarrista ha bisogno di raggiungere il suo suono. Per distinguersi, e per suonare al meglio ciò che ha in mente di suonare. Trower ci aveva messo un sacco a raggiungerlo; tutta la sua carriera nei Procol Harum (cinque dischi e cinque anni, 1967/1971) lo aveva visto sforzarsi in questo, senza approdare a risultati adeguati. Armeggiava allora con chitarre Gibson, che fossero Les Paul oppure “diavoletto”, perfezionando via via la sua tecnica ed ogni tanto rilasciando bei riff e ficcanti assoli ma ancora non c’eravamo, sentiva mancargli qualcosa, il giusto feeling.

L’interruttore scattò una sera che Robin si decise, durante un sound check sul palco, ad imbracciare la Fender Stratocaster di un collega che avrebbe suonato col gruppo di apertura ai Procol Harum. E fu l’illuminazione istantanea, come aver trovato moglie dopo tante ragazze… come un pezzo che va ad incastrarsi alla perfezione nella nicchia ancora vacante.

Perciò Stratocaster, preferibilmente con inserito il pick-up centrale per le ritmiche e in combinazione con uno degli altri due per i soli, e poi chorus di marca Uni-Vibe sempre inserito o quasi, e ancora wah wah spesso e volentieri… Un suono paurosamente simile a quello di Jimi Hendrix ma chissenefrega, Trower aveva trovato, e mai più abbandonerà, la base solida sulla quale poggiare in maniera ottimale il suo fraseggio, le sue idee e i suoi riff. La torta era finalmente cotta a puntino ed il mondo doveva fare posto ad un nuovo, grande chitarrista elettrico, mirabilmente rigeneratosi da un esecutore sulla piazza da un pezzo e fin lì bravo, ma come tanti altri.

E per quanto riguarda il canto la soluzione subito perfetta fu l’ingaggio del mai abbastanza rimpianto bassista e cantante James Dewar, un tipino allampanato, schivo ed umile quanto ricoperto di talento, una specie di Paul Rodgers come timbro e approccio ma meglio, meglio: non così… maraglio, più modesto ed essenziale, con il “soul” che gli veniva su dal collo, dalla trachea, dalle palle e gli sgorgava dalla bocca e dal naso, per finire nel microfono nell’impianto e poi nelle casse a far godere e a dare la sensazione del giusto, del sano, del meglio blues bianco possibile.

James se n’è andato presto, nel 2002 ancor sessantenne, la sua voce profondamente risonante risplende in quest’album dal vivo del 1976, addizionandosi al suo basso altrettanto profondo, semplice, lineare ed efficace, indispensabile complemento alla chitarra sulfurea e guizzante del suo capo gruppo.

Contesto:

Pare strano oggi, ma in quegli anni Robin Trower ed il suo rock blues “tiravano” tanto, in mezzo mondo, persino nei lontani Stati Uniti. Merito del secondo album “Bridge of Sights” e dei suoi tre/quattro riff micidiali ivi contenuti che avevano colpito nel segno. Questo disco è perciò testimonianza dell’apice di carriera del nostro. Grandissime vendite, grandissimi concerti.

Infatti la copertina mostra, impropriamente, il musicista suonare in una venue all’aperto, uno stadio, davanti ad un oceano di folla… in realtà la registrazione riguarda un concerto al chiuso, nella sala più prestigiosa di Stoccolma. Con questo forse si perde qualcosa in immaginario rock, ma ci si guadagna per certo in non dispersività e bontà di suono. La data è 3 febbraio 1975 e il posto è la Concert Hall nel centro pieno della capitale svedese. L’album (purtroppo) è singolo… appena sette brani per quarantuno minuti.

A quel punto di carriera il trio di Robin (il batterista Bill Lordan a completare la sezione ritmica) aveva realizzato tre dischi in studio e pure tre sono gli estratti dal primo lavoro “Twice Removed from Yesterday” ed altri tre dal secondo “Bridge of Sights”. Uno solo invece dall’allora recentissimo “For Earth Below”.

Punti di forza e lacune:

Joe Cocker? Rod Stewart? Paul Rodgers? Steve Winwood? David Coverdale? A proposito di blue-eyed soul singers (insomma, gente di razza bianca che tiene il blues profondamente immerso nelle vene), personalmente scelgo tutta la vita il tizio che canta qui (intanto che suona pure il basso). Si, gli manca l’essere un animale da palco, ma l’emissione vocale è inestimabile, tonificante.

La registrazione è decente anche se non entusiasmante, con le grida e gli schiamazzi (pochi, siamo in Scandinavia) del pubblico tenuti a debita distanza dal missaggio. La performance di Trower sovrasta, da vero capo banda, quella degli altri penalizzando un poco la pungente e precisa batteria di Lordan.

Vi sono canzoni che replicano la bontà degli originali di studio ed alcune che la surclassano, vediamo quali.

Vertici dell’album:

Tre capolavori assoluti di repertorio appaiono su questo disco, restando tali se non lievitando ulteriormente con l’esecuzione dal vivo. Due vengono dall’album di esordio di un paio d’anni prima e fra di essi c’è la perla assoluta: s’intitola “Daydream” ed è un blues lento, lentissimo… nella mia personale classifica dei blues battaglia da sempre con la Zeppeliniana “What Is and What Should Never Be” per la palma del miglior blues presente in natura.

Trower la apre in solitaria, accennando il tema principale, presto raggiunto dal cantante e quasi subito dopo dal primo tonfo di batteria e basso. Voce e chitarra viaggiano in parallelo sulla stessa linea melodica, epperò mentre il cantato è fermo, pacato nell’oscillare sapientemente intorno all’obbligatorio, caratterizzante tritono blues (così generando al cervello di chi ascolta l’immancabile spaesamento ascendente/discendente, da vera “nota del diavolo” come in passato decisero di chiamarla), la chitarra è invece mobile e rigogliosa alternando arpeggi, vibrati, bicordi, scivolate, sincopi.

Le poche frasi del testo sono intervallate da un sapiente assolo di chitarra centrale, ma è nel fondo della canzone che avviene il meglio: Dewar si acquieta e parte un secondo assolo che cresce e sembra risolversi nella catarsi Hendrixiana del fragoroso sferragliamento degli accordi di nona, in cromatica ascendenza verso gli acuti…

Invece c’è uno stop, una pausa e la Stratocaster subito riprende a parlare, anzi stavolta a gemere, sulla ritmica sempre più appoggiata e spenta: c’è Robin Trower che fa l’amore col suo strumento, con l’oggetto che ha riempito la sua vita più di ogni altro. Egli spande sapienti e accorati tocchi qui e là sulla tastiera, delicatamente “lavorando” ogni singola corda presa, tirandola, vibrandola, scivolando sulla nota appresso. Pare di vederlo, piegato in avanti, occhi chiusi, con la smorfia della bocca ad assecondare ogni minimo gesto esecutivo.

L’acme si raggiunge quasi alla fine, quando il maestro tira una corda e resta su quella nota, fermo, lasciando lavorare il Marshall distorto dietro di lui che subito glissa di netto di un’ottava all’armonica superiore, quasi in larsen. E’ tutto in sospensione, il batterista rintocca il tempo quietamente sul piatto, il basso continua la rarefatta progressione armonica a intervalli di un tono.

Robin non è soddisfatto… cambia mattonella sul palco, o forse semplicemente cambia posizione del corpo rispetto all’amplificatore, magari ruota impercettibilmente il torso per “nascondere” un po’ più le corde all’ensemble di coni abbaianti dietro di lui. Spegne il larsen con una botta di leva del tremolo, fraseggia un momento e poi risuona la stessa nota di prima, allo stesso modo.

Stavolta funziona tutto meglio: il Marshall la tiene così per un po’, poi quando sembra che stia per scemare ecco che parte la prima armonica, stavolta in maniera giusta, più nascosta, piena, appagante, nutriente. Forse Robin allora si butta all’indietro e apre la bocca in una smorfia suprema, aspetta e se la gode (ed anch’io me ne vengo, ammirato e conquistato)...

Pare il lamento di un ippopotamo. Va in risonanza l’intero palco, pure la cordiera del rullante del batterista si mette a frignare… sono lunghi secondi di paradiso blues amplificato. Finché Trower riagguanta delicatamente la leva del tremolo e fa ondeggiare il suono, spegnendo le armoniche e dando tregua agli altoparlanti sia dei Marshall che dell’impianto, a rischio di “saltare” su quella frequenza di risonanza bestiale.

Ancora qualche gemito sempre più dimesso su e giù per la tastiera, sempre più lento, e poi l’accordo finale, l’arpeggio di congedo ai nove minuti di suprema sensibilità blues, debitamente dilatata da quei benemeriti dispositivi elettro acustici che hanno permesso al rock’n’roll di tramutarsi in rock, alla musica di amplificarsi all’inverosimile ed aggiungere ulteriore pathos alla sua mirabolante, insuperabile efficacia su cervelli, cuori e intestini della gente. Un grazie a Leo Fender, a Jim Marshall… e di nuovo a Robin Trower capace di sfruttare al meglio le intuizioni dei suddetti inventori!

Pregevole pure il rendimento di “I Can’t Wait Much Longer”, il rock blues vagamente psichedelico che nella versione in studio apriva il primo disco di Trower, inaugurando col botto la mutazione del brutto anatroccolo prestato al progressive (nei Procol) in nobile cigno del rock blues di stampo Hendrixiano. Qui la voce grossa la fa il sontuoso, omerico, imperiale, scolpito riffone bagnato di tremolo e di chorus, al solito un misto di arpeggio, tritono, rapido legato e svisata di corda con vibrato incorporato come chiusura: una vera bellezza e col suono più giusto del mondo: stordente (psichedelico, appunto) per quanto è filamentoso e ondeggiante.

Su di esso Trewar si dà da fare a intonare la sua preghiera all’amata, dicendole che non può più aspettare ancora a lungo… Ok, i testi di Robin Trower non valgono nulla, sono meri cliché blues/amorosi creati al solo scopo di aggiungere la voce (e che voce) alla tavolozza di colori allestita dalla chitarra. Va bene così, se alla musica si accompagnano buone liriche è meglio, ma se ciò non avviene ma la musica è comunque eccellente, evviva! Vale ugualmente la pena.

La terza prominenza dell’album è in apertura: “Too Rolling Stoned” si fregia di un giro di basso nei confronti del quale miriadi di musicisti, gruppi, produttori, case discografiche, addetti ai lavori ruberebbero, venderebbero la madre, donerebbero un rene per averlo concepito. La resa dal vivo qui è invero leggermente inferiore all’originale in studio, e per due ragioni. La prima è che il basso non è abbastanza dominante nel mix: qui Trower è un po’ troppo egoista… è vero che la sua ritmica, prima a botte di stoppati sbrindellati dal pedale wah wah e poi in mirabile contro-riff, è una figata, ma il treno del basso è la cosa più impagabile e andava premiata adeguatamente.

La seconda contingenza è creata dal ritmo e dal feeling della seconda parte del brano, il blues/boogie essenzialmente strumentale che a metà strada, dopo uno stop strascicato e d’atmosfera, parte mettendosi su canoniche terzine in dodici ottavi, a cadenza più lenta del concitato galoppo del tema precedente. Ebbene, il ritmo in questa esecuzione è piuttosto accelerato e la resa strumentale ne viene in qualche modo penalizzata, comunicando una leggera sensazione di tirato via, un feeling che certo non sussisteva nel lento, glorioso, compatto procedere di questa lunga coda nella versione originale. Ma sono sottigliezze se si vuole, il brano resta magnifico comunque.

Il resto:

Rock Me Baby” è quella lì, lo standard blues di anonimo autore e di estesissima coverizzazione, ripresa da tantissimi (B.B.King, Otis Redding… e naturalmente Jimi Hendrix). La versione dei nostri è a velocità abbastanza canonica, tranquilla, al solito ispirata e ricca nell’assolo, con Lordan che insiste nel suo privilegiato accompagnamento di scuola jazzistica, coi dodicesimi tutti suonati e scanditi sul piatto e il rullante più carezzato che bastonato. Trower è però tutto da ascoltare anche qui, perso nel suo mondo a sei corde, avvincente, caldo, impetuoso.

Per inciso, la migliore “Rock Me Baby” che conosca è quella rilasciata dal compianto e meraviglioso chitarrista texano Johnny Winter sull’album del 1973 “Still Alive and Well”, nel suo stile giovanile più ammirato e spumeggiante: rabbiosa, agile, asciutta, tumultuosa.

Lady Love” è un estratto del secondo album, appoggiato su di un riff di chitarra semplice quanto efficace, al solito veicolo per l’estroso girovagare della chitarra irresistibile del leader.

Alethea” è l’unico contributo del terzo album “For Earth Below”, un rock scaracollante nel quale il chitarrista si appoggia molto al suo pedale wah wah e sceglie di correre negli assoli, rilasciando agili grappoli di note in legato. Il brano è dilatato alquanto da un assolo di batteria, semplice quanto circoscritto nel tempo (per fortuna… gli assoli di batteria, tutti gli assoli di batteria, sono noiosetti ascoltati e visti dal vivo, quando poi del tutto tediosi messi su disco).

La chiusura “Little Bit of Sympathy” è una corsetta rock blues Hendrixiana fino al midollo, pure nella scansione del cantato di Dewar. Il suo compare Trower per l’occasione “pulisce” un poco il suono della Strato dalle abituali distorsioni e si cimenta con timbri semi-clean molto cari al genio di Seattle suo ispiratore. La canzone indugia a lungo su arretramenti di volume ed intensità, prodromi a successive ripartenze rabbiose… classico espediente per attirare l’attenzione del pubblico astante. Sono quasi sei minuti di delirio chitarristico, con le solite mitragliate di accordi di nona a fare da culmine, prima dello stop finale, un frettoloso “Thank you and good night!” del capo banda e tutti a casa, o meglio disco finito e da rimettere a posto. O da risentire.

Giudizio finale:

Ottimo disco dal vivo: tre episodi imperdibili ed altri quattro di completamento, non certo dei riempitivi ma insomma più ordinari. Sono indeciso fra le quattro e le cinque stelle: io lo adoro, Robin Trower, e allora cinque.

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