Ravanando nel fondo del barile del rock stelle e strisce, si possono raschiar su anche questi Razzi, provenienti da Detroit. I tentativi di info sul Web nei loro confronti sono difficoltosi, perché si va sempre a sbattere in quella banda omonima, ad essi più o meno contemporanea, di pirla francesi vestiti da tubi della stufa e alle prese con disco music d’accatto, secondo loro space rock (ma va).
Ci lasciano in dote (a trovarli…) cinque album, più un sesto ed ultimo dal vivo, pubblicati tra il 1977 e il 1983. Questa formazione ebbe un decente seguito al tempo, concentrato negli Stati Uniti e in particolare nel loro Michigan, posto sempre attento ai rocchettari suoi (Grand Funk, Bob Seger, Stooges, Mc5, Jack White, Ted Nugent…), malgrado l’agguerrita, locale concorrenza soul (Steve Wonder, Aretha, Marvin Gaye, Diana Ross, Temptations, Smokey Robinson, Miracles… e vabbè, i migliori d’America).
Le due colonne portanti della formazione sono il batterista, cantante e compositore John Badaniek, detto “The Bee” perché non stava mai fermo, pieno d’iniziativa, di voglia di suonare, di progetti, tale e quale a un’ape appunto. L’altro é Jim McCarty, allampanato e brillante chitarrista rock blues, senza troppo talento da compositore ma di converso sopraffino, bravissimo solista.
Jim proveniva dall’esperienza coi Cactus, rocchettari belli duri, di impatto più brutale e virtuosistico di questi Rockets a ragione di una sezione ritmica atomica, la coppia Appice/Bogert ex Vanilla Fudge, e di un frontman etilico ed estremo. In questo suo nuovo gruppo McCarty trova invece una sezione ritmica “normale”, ma soprattutto molta più gente intorno a lui. Vi sono infatti un secondo chitarrista ed un tastierista, così lui può dedicarsi a lavorare di fino con la solista, senza correre troppo sulla tastiera, senza preoccuparsi di riempire costantemente il suono, di fare ritmica.
Il genere è un blues rock’n’roll variegato ma deciso, niente di geniale, ma piacevole e grintoso. A far rock senza lustrini e mancamenti dà una grossa mano il cantante David Gilbert, provvisto di gargarozzo grattugioso si, ma senza esagerazioni. Si pensi a degli AC-DC però con parti corali sviluppate, un blues semi lento ogni tanto, persino qualche ballata, con un suono più rotondo e colorato, non sagomato alla perfezione come i campioni australiani, statuari nel loro rock’n’roll ad alto volume, prettamente chitarristico. Mi sovvengono anche gli scozzesi Nazareth, come banda similare.
Tra rock’n’roll sempre in tiro ma melodici, tentativi più commerciali da tre minuti, lunghe pennellate d’autore di McCarty con la sei corde negli episodi più estesi, la canzone che in quest’album attira più di tutte è la perfetta, rispettosa, convinta cover di “Oh Well”, capolavoro dei primi Fleetwood Mac del compianto Peter Green, col suo riff statuario e cogli stop&go che hanno fatto scuola.
Sempre un piacere intercettare pagine non indispensabili, ma degnissime come queste, aggiunte a suo tempo dai Rockets al grande libro del rock’n’roll.
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