Quando stamattina, mezzo rintronato dall'influenza e depresso dal grigiore e dalla pioggia mi sono alzato e ho aperto DeBaser, mi è scappato un insperato sorriso. Non che questo sito mi deprima, eh, state tranquilli, è magnifico e voi tutti siete magnifici. Ma un giorno "no" è un giorno "no", e trovarsi davanti una recensione di un Rod d'annata, per giunta scritta così bene, bè difficilmente ti lascia indifferente. Anche perché se l'album in questione, "Never a Dull Moment" recensito superbamente da Supersoul, non l'ho ancora ascoltato, mi ha perlomeno fatto ritornare in mente un lp che ascolto discretamente spesso (e non ancora su DeBaser! E se non lo recensisco ora, quando?!), assieme a tutti i ricordi legati al suo acquisto.

Quel giorno d'autunno di tre anni fa fortunatamente in negozio non c'erano degli sbarbatelli che cercavano i Coldplay. C'era invece un tipo che trafficava nell'angolo "vinili d'occasione", ossia tutti gli scarti delle edizioni economiche degli anni '80 in offerta. Si dà il caso che il tipo in questione fosse il sottoscritto, che scartabellando si trovò davanti proprio questo "Every Picture Tells a Story". Ora, di Rod Stewart non conoscevo molto; anzi, quel poco che conoscevo erano i suoi più o meno recenti schiamazzi in stile "canzone sotto la doccia" che avevano segnato, indelebilmente, le adolescenze dei miei cugini più grandi negli anni '80. Il che, come forse potrete immaginare, suscitò un'iniziale repulsione nei confronti del suddetto album tra le mie mani. Poi però mi dissi: ehi, calma un attimo. Ma quel disco che ha comprato tuo fratello, quel "Beck Ola" del Jeff Beck Group, non c'aveva come cantante proprio Rod Stewart? Sì, effettivamente sì. Voltai la copertina e diedi un'occhiata all'anno. 1971. E a pensarci bene, mi chiesi, dove che ho letto che i suoi primissimi dischi non erano niente male? Così, fatti due conti, visto il prezzo irrisorio, decisi di arrischiarmi. E qui viene il secondo problema. Perché quando sei abituato a passare almeno un pomeriggio della settimana in QUEL negozio di dischi (abitudine purtroppo, o per fortuna delle mie tasche, persa), a interloquire con un negoziante mezzo matto che non si fa troppi problemi (figurarsi quando poi hai anche un pò di confidenza, come nel mio caso) a dirti in faccia cosa pensa di quello che stai comprando, un pò di paura ti viene. Mi avvicinai alla cassa tremando, già immaginando la sfilza di improperi imminenti (e ipotizzando anche di fuggire senza pagare, magari lasciando i soldi fuori dalla porta nella notte a saracinesche chiuse, toh, proprio per non essere infame), e lo sottoposi al suo giudizioso quanto squilibrato sguardo. Ebbene, sue testuali parole furono: "Però...quando sto tizio sapeva ancora lavorare come Dio comanda, altro che quella ***** di Sailing". Ora, il sottoscritto non ha nulla da dire su "Sailing", se non altro perché non l'ha mai sentita; mi limito semplicemente a riportare l'opinione del negoziante. Fu così che uscì dal negozio visibilmente soddisfatto di essere scampato alla mattanza d'ira del suo titolare, e fui ancora più visibilmente soddisfatto quando questa edizione vinilica sopravvissuta all'avvento del digitale, rimasta segregata per due decenni abbondanti nella sua busta, tenuta lontana da un qualsiasi oggetto contundente chiamato puntina di giradischi, ebbe modo di sciogliersi, liberarsi nelle casse del mio stereo, mentre un intero edificio tremava...

Ebbene sì, ve lo dico subito, questo disco fa tremare le pareti. Non che sia colpa sua, ma questo è un disco che, come si diceva una volta, è stato fatto per essere suonato a tutto volume. Non aspettatevi chissà che capolavoro, ma un 33 giri di puro sangue, sudore, lacrime, quelle di Rod e dei suoi sodali di baccanali, scazzotate e suonate Ron Wood (all'epoca nei Faces, non ancora nella cricca rotolante), Ian McLagan (anche lui compagno nei Faces) Mick Waller (vecchia conoscenza, come anche Wood d'altra parte, risalente al Jeff Beck Group), oltre che di insospettabili compagnie decisamente più tranquille, come il chitarrista folk Martin Quittenton, il violinista Dick Powell e il suonatore di mandolino dei Lindisfarne Ray Jackson. Una musica forse non chissà quanto originale, ma ruvida e sporca come quella di qualsiasi gran disco rock inglese del 1971, fosse esso dei Rolling Stones, degli Who o dei Led Zeppelin. La titletrack parte in effetti con un riff vagamente townshendiano (anche se suonata e co-composta da Ron Wood) e una batteria squassante che non può non ricordare Keith Moon, e finisce con un incadescente duetto con Maggie Bell (grande voce dimenticata del r'n'b inglese anni '70).

Il primo lato poi passa piacevolmente tra una ballatona dai toni soul e gospel ("Seems Like a Long Time") e un medley composto dal vecchio classico rock'n'roll "That's All Right" e da un rifacimento del traditional folk "Amazing Grace", per poi concludersi con una cover di Bob Dylan. Ma il secondo lato non salva nessuno. Dopo un giro di chitarra acustica dell'amico Quittenton, si parte con "Maggie May", il pezzo che nelle giornate più "no" vi tira irrimediabilmente su, seguito da un altro originale, "Mandolin Wind", ballata folk rock che sa molto di Led Zeppelin III e IV, struggente quanto basta. Ma attenti, perché se la Canzone del Mandolino vi ha addolcito, avete irrimediabilmente abbassato la guardia per la successiva "(I Know) I'm Losing You", cover di un vecchio pezzo dei Temptations di motowniana memoria, che tra la batteria di Waller più selvaggia e invasata che mai, e il riff micidiale della chitarra di Wood (mi piacerebbe pensare che qualche anno dopo Keith RIchards si sia ricordato di questa canzone, prima di scegliere Ronnie) trova le sue colonne portanti. C'è poco da fare, vi siete autenticamente stracciati le vesti a furia di ballare, non gli avete potuto resistere e ormai siete di nuovo sul divano esausti. A far quadrare i conti e a quietarvi c'è un'ultima cover, questa volta di Tim Hardin (altro celebre folksinger degli anni '60), "Reason to Believe", che fa ritornare un pò di vecchia e sana malinconia.

Il disco finisce, il braccio del giradischi torna a riposarsi e voi pure, con i piedi nelle pantofole, certi che un'altra giornata è passata, una giornata difficile magari, ma che un buon Rod d'annata vi ha raddrizzato, come sempre.

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