Parecchi anni fa mi capitò di stare un poco nel camerino della Premiata Forneria Marconi prima di un loro concerto: un gruppo di miei amici doveva "aprire" per loro quella sera ed il loro chitarrista non aveva perso l'occasione di approcciare il virtuoso Franco Mussida per farsi dare qualche "dritta" musicale…

Mentre eravamo lì, intorno ai due che si "riscaldavano" con le chitarre acustiche, qualcuno chiese a Mussida chi fosse mai il suo chitarrista preferito. "Al momento, Rory Gallagher!" rispose asciutto.

Rimasi interdetto mi aspettavo un Robert Fripp… o Steve Howe vista la comune impostazione classica, e lui invece va a nominare questo irlandese tutto feeling e immediatezza, agli antipodi del suo approccio musicale, allora gli dissi di getto: "Ma tu suoni in tutt'altro modo, molto più difficile!"… e lui: "Non ci provo nemmeno a fare quel che fa lui! E' di un altro pianeta! Io mi sono dovuto studiare tutto lui invece ci arriva così (e mi schiocca le dita davanti al naso)… a fare cose incredibili!".

Se l'America ha generato uno Steve Ray Vaughan, l'Europa ci ha dato Rory Gallagher: entrambi con addosso una Fender Stratocaster tutta sbrecciata dall'uso intensivo, sempre quella, entrambi in trio rockblues a fare il bello e il cattivo tempo con la chitarra (magnifica) e la voce (rozza ma "vera", sincera), entrambi ci hanno lasciato troppo presto, Rory non ce l'ha fatta dopo che gli avevano trapiantato il fegato devastato dalla cirrosi. Quando gettò la spugna dieci anni fa si fermò l'Irlanda tutta, fu lutto nazionale per quella che è forse la terra più "musicale" del mondo, una grande nazione.

"Deuce" ce lo fa ascoltare agli inizi di carriera, nel 1971. E' il suo secondo lavoro a proprio nome, dopo due o tre album a nome Taste che affondano negli ultimi anni sessanta. Incisione in studio ma l'approccio è totalmente e volutamente "live" e per ottenere compiutamente questo le "basi" dei pezzi furono registrate correndo in studio immediatamente dopo i concerti, in piena notte. La produzione è inoltre tenuta al minimo, gli errori e le imperfezioni esecutive non sono corretti e quando il "tiro" era quello giusto bene così e vai col prossimo. Si sente che le canzoni nascono da ispirate jam session (con lui i fidi Gerry McAvoy al basso e Wilgar Campbell alla batteria) il gruppo è estremamente coeso l'interazione fra i musicisti è spontanea e vivida. Qualche sovraincisione di assolo, la ruvida voce di Rory sparata in faccia e niente altro.

L'inizio dell'album "I'm Not Awake Yet" è semiacustico, molto irlandese per via di un leggero andamento a giga celtica, Rory comincia ispirandosi alla sua terra e rimandando a dopo i suoi amori americani, usa l'elettrica solo per un lineare e quieto accompagnamento riservando abbellimenti ed assoli all'acustica. Parte poi "Used To Be" e sembra di aver cambiato disco: riff imperiale, stupendo, andamento sincopato con la sua "vociaccia" a riempire le pause e la Stratocaster a contrasto col quel suo inimitabile timbro pulito che non dà scampo, si sente tutto, la qualità delle singole pennate, le microincertezze di intonazione e quasi pure il cono dell'altoparlante che lavora e l'aria che smuove…

In "Don't Know Where I'm Going" che segue Gallagher è da solo, voce chitarra acustica e armonica, sembra di ascoltare un Bob Dylan più blues e… che sa dove mettere le mani sullo strumento. "Maybe I Will" odora di anni sessanta col suo retrogusto beat ed anche qui il chitarrista si esibisce in un assolo spietatamente pulito, senza rete, vivo e vegeto, mentre nella successiva "Whole Lot Of People" si apprezza il primo suo solo di slide (ditale di ferro infilato nel mignolo e fatto scorrere sulle corde, senza premerle sui tasti). Rory vi indugia a lungo fra continui stop&go e intricati arpeggi.

L'atmosfera sale al calor bianco con la successiva "In Your Town" una performance da infarto alla slide su una ritmica boogie ipnotica e dilatabile a piacere (infatti era un classico dei suoi concerti), poi si acquieta parzialmente nello strascicato blues alla Muddy Waters "Should've Learnt My Lesson". Con "There's A Light" il panorama musicale si dilata con accordi jazzy assai esoterici e ricercati, batteria in controtempo e melodia malinconica, di quelle che potrebbe cantare con successo Sting (sentire per credere!). A contrasto, il brano che viene dopo "Out Of My Mind" è di nuovo acustico e con nette influenze americane, Rory suona e canta nello stile folk di Nashville con serrati arpeggi da virtuoso e cantato "sudista".

"Crest Of A Wave" posta in conclusione è la canzone più bella dell'album: liricissima e dominata da un lungo assolo di slide capace di far venire giù i santi. Il chitarrista indugia su di un unico accordo tendendo l'arco emozionale e quando poi, spalleggiato dalla ritmica, glissa in un giro armonico vengono meno tutti i possibili dubbi: si realizza di stare godendo grandissima musica, il lavoro della slide in questo capolavoro genera un non so che di primordiale, selvaggio e libero, ancestrale e definitivo, intenso e nutriente feeling.

Se vi piace la chitarra rock e in un negozio vi casca lo sguardo su dei cd con in copertina un tizio con addosso invariabilmente una camicia a quadrettoni e una Stratocaster scartolata, fate di prenderne almeno uno. E' lui, è Rory Gallagher.

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