Nascere esseri umani è faticoso: vieni al mondo controvoglia e sin dai primi anni di vita ci si aspetta che si seguano le orme dei padri o delle madri, che ci si sposi perché da soli non si può stare, che si trovi a fatica un lavoro stabile (non importa se grigio, monotono e deprimente) lottando contro le ingiustizie, che si produca, si mangi, si dorma, si figli e si muoia senza essere ricordati da nessuno.

La vita è, quindi, svuotata di senso: è un semplice ingranaggio di una grande macchina che deve continuare ad esistere. Ogni pezzo vecchio verrà sostituito con uno più nuovo, più fresco e più efficiente. Ma se questa macchina chiamata "esistenza" -di cui ogni essere umano è un piccolo ingranaggio -  deve continuare a marciare senza scopo, a che servono le emozioni dei singoli? Sono orpelli, abbellimenti, fiocchetti, meringhe? Oppure hanno anch'esse delle funzioni specifiche?

Su questi principi, se vogliamo, si basa la trilogia sull' "essere un essere umano" di Roy Andersson, che recentemente ha vinto (giustamente) il prestigioso Leone d'oro al Festival del Cinema di Venezia con l'ultimo capitolo "A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence", preceduto dal capolavoro "Songs From the Second Floor" (2000) e questo "Du Levande" (2007).

Sono principi e spunti di riflessioni già affrontati in tutte le salse: il senso e il (non) senso della vita come concetti teorici sono alla base della cultura umana da tempi antichi, passando per tutte le arti, le religioni, le scuole di pensiero...

Sono spunti di riflessione che potrebbe formulare anche un  bambino particolarmente sveglio, eppure, la mancanza di risposte ci costringe a re-interrogarci sul perché noi respiriamo su questa Terra.

Anche Roy Andersson non dà risposte o, meglio, non vuole dare risposte. Il suo intento è mostrare quest'insensato limbo che gli esseri umani raggiungono quando iniziano ad interrogarsi del perché esistono. Lo fa con una grazia che appartiene solo a lui: è pessimista, ma è anche tenero nell'approccio. Non affonda mai in un cupo tunnel infernale. Anzi, deride i suoi personaggi grotteschi, ma al contempo li ama.

L'approccio di Andersson è quello tipico della commedia, una commedia gelida sull'insesatezza umana, dove brevi sketch tristi, tragici o malinconici (spesso a camera fissa, ma occhio a quegli occasionali, impercettibili carrelli laterali!) si incastrano l'uno con l'altro in un tour de force surreale che conduce lo spettatore, inevitabilmente, ad empatizzare con questa disperata fauna umana sull'orlo dell'oblio. Si ride tanto grazie al black humor infallibile e di ghiaccio, memore del surrealismo nonsense in stile Monty Python e riadattato secondo i gusti dell'autore. Si ride ma, a fine visione,  non si può che piangere.

Quegli esseri umani così grotteschi siamo noi: la fragile insegnante delle elementari che è stata insultata dal fidanzato che scoppia in un isterico pianto, l'inguaribile romantico che si ritrova con il mazzo di fiori da regalare alla sua amata incastrato nello stipite della porta, la donna che si sente sola nonostante tutti vogliano amarla, la giovane che sogna una vita da sogno con il suo principe azzurro, con il loro nido d'amore che parte come se fosse un treno...

Si ride e ci si pente di aver riso. Ci si strugge, ci si commuove, si sogna. E, al momento di andare a letto, si resta con gli occhi sbarrati rivolti al soffitto. A ripensare a quel finale di imminente tragedia, di una bellezza sconvolgente.

Quando si perde ogni speranza non ci si deve abbattere, si deve ridere.

Perché spesso ci disperiamo per ciò che, visto da fuori, appare come assolutamente ridicolo.

Un film grandissimo, dedicato sia a chi vuole riscaldare il proprio cuore e tirarsi su e sia a coloro che vogliono solo sfogarsi scaraventando i piatti contro le pareti. Queste storie di ordinaria tristezza sono per voi. 

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