Un tempo c'era una certa giustizia nel rock'n'roll.
Prima che arrivasse l'ondata di finto garage rock, preconfezionato a meraviglia dall'industry discografica, un prodotto "ribelle e giovane" per far sentire gli adolescenti di oggi anticonformisti e "sporchi" abbastanza anche con la loro sfilza di etichette penzolanti dai jeans "finto-poveri" costati diverse centinaia di dollari, euro, fiorini, quello che vi pare.

Un tempo c'erano i Royal Trux, nati, insieme ai Jon Spencer Blues Explosion, dalle ceneri dei Pussy Galore.
Jennifer Herrema e Neil "IG" Hagerty rappresentano quello che il garage poteva essere se non ci fossero stati gruppi come White Stripes e The Kills e il loro back up di corporate shit a sporcarlo e renderlo inutile, o meglio modaiolo.

Le leggende della loro tossicodipendenza hanno spesso oscurato la loro musica e il fatto che le loro radici affondassero a piene mani nel blues e rock anni '70, con un profondo inchino reverenziale agli Stones e ai Sonic Youth, creando una miscela di suoni caotici, avant-noise che non lascia spazio a mezze misure: o li ami o li odi. Ma proprio in questo sta la magia di Royal Trux, erano/sono veri, se ne fottono di quello che può piacere alle masse e vanno avanti per la loro strada, sperimentando con rock, blues e honky tonk, andando in overdose mentre lo fanno, e rialzandosi miracolosamente in piedi per continuare il party.

"Accelerator" è forse il post party, le canzoni sanno spesso di "amarone" (Liar), strade polverose (Juicy Juicy Juice),e materassi macchiati di vino o altro (Follow The Winner). I'm Ready, il pezzo d'apertura, ha una carica garage che ti fa l'effetto di uno schiaffo, ma uno schiaffo goliardico che ti invita a fare festa e fregartene. Nell'album, che come al solito è un mix di suoni e generi shakerati ad arte, aleggia anche un'atmosfera acida; la voce di JH stonata e biascicante, in New Bones graffia e accarezza, ti dice che "you can take care of yourself" senza lasciarti speranza, lei bada a sé e gli altri crepino. In Yellow Kid, che fortemente ricorda Sweet Virginia degli Stones, i colori sono sbiaditi e delicati, sanno di whiskey e baci impastati, e ora vedo che non sto dando alcun dato "tecnico", ma chissenefrega, la tecnicalità non fa parte del linguaggio di questa band. Il loro modo di far musica è tutto il contrario di quello per far soldi, e le loro imperfezioni me li fanno amare ancora di più.

Sono all'ultima traccia, Stevie, che mi mette sempre una malinconia incredibile, ma quella malinconia che mi piace, che ha il sole alle spalle e il field di Glastonbury la mattina della sera dopo, avvolta nel mio sacco a pelo, sporca di fango, Fil che dormicchia sull'erba, e penso che Meg White dovrebbe andare a farsi un giro una volta per tutte e la mia omonima per caso (ci tengo a sottolinearlo), potrà finanziare ancora tanti tours dei Kills con la sua carta di credito, ma non varrà mai un'unghia della Herrema (per i debaseriani interessati a questo genere di info: una gran gnocca), e Hotel e Jack dovrebbero, a mio avviso, inginocchiarsi e offrire sesso orale e una parte di royalties a Neil Hagerty per il resto della loro vita.
Ma questo non succederà, come dicevo all'inizio, la giustizia nel rock'n'roll è al momento latitante.

Bene, ho finito.
Buon anno a tutti.

 

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