Un uomo vaga nel deserto con una tanica di benzina in mano, percorrendo immaginarie e accecanti autostrade, mentre una torrida slide guitar scava nell'animo e allo stesso tempo evoca spettri di un battello rimbaudiano alla deriva verso l'infinito. Chi non ricorda l'incipit di "Paris, texas", ineguagliabile connubio creativo di tre talenti all'apice del loro genio: Wim Wenders, Sam Shepard e Ry Cooder?

Cooder ha scritto pagine fondamentali nel libro della musica contemporanea, sia come filologo etno-oriented che come strumentista, ma è indubbio che il suo nome rimarrà scolpito nella storia in particolare grazie alle dieci composizioni che accompagnano il più sublime dei viaggi wendersiani. Raramente una colonna sonora ha saputo non solo interpretare il senso del film, ma addirittura fissarne le vertigini in schegge sonore capaci di andare oltre, costituendo opera perfettamente autoreferenziale. Avete presente la scena in cui Travis scappa per la prima volta e viene beccato sui binari dal fratello?

"Vuoi dirmi dove sei diretto Travis ?"
(Travis scruta davanti a sé e con lo sguardo indica l'infinito).
"Che c'è laggiù? Non c'è niente laggiù".

Il senso di "Paris, Texas" sta in fondo in questo frammento. Laggiù c'è il deserto, la frontiera, lo spazio interiore ed esterno: il nostro infinito. E l'unico modo per ritrovare noi stessi consiste nell'attraversarlo, a costo di passare per i simulacri della solitudine. E Ry Cooder ha fornito il rumore perfetto di quella solitudine: un country-folk futurista, aspro e ardente come le distese sabbiose del Texas, strisciante e letale come un crotalo. Accompagnato dall'archetto di David Lindey e dal piano appena percosso di Jim Dickinson, Cooder mette in scena una scarna ma allo stesso modo spettacolare animazione dell'ignoto, giocando quasi sempre sui pesi delle slide ma anche lasciando a briglie sciolte le scivolate delle altre dita.

Si pensi agli accordi semplici della title-track, autentico archetipo per tutto "il rock del deserto" a seguire: dai magnifici Thin White Rope (soprattutto per l'impianto visionario di fondo) alla frontera dei Calexico, ispirati da quella slide così sinuosa e avvolgente che sembra impossessarsi della sofferenza dell' indiano morente di morrisoniana memoria.
In queste dieci tracce il mondo si manifesta sotto la forma di una serie sterminata di risposte a un enigma invisibile, nascosto nelle pieghe della sabbia. Per dirla col Faulkner de "L'urlo e il furore": è il suono grave e disperato di ogni muto tormento sotto il sole.

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