Nel giro di due anni, tra il 1993 e il 1995, i Saga sono sul mercato con tre opere diversissime. Al quasi hard rock di "The Security of Illusion", ispirato e trascinante nella sua raffinata strapotenza, aveva fatto seguito il quasi synth-pop di "Steel Umbrellas", nient'altro che la sonorizzazione di un serial televisivo e quindi opera poco ambiziosa a prescindere. Passa nuovamente meno di un anno ed è la volta di questa orpellosa, intensa, impegnativa, consapevole immersione nel campo della rock opera.
Introducendo intuitive analogie pinkfloydiane, se il disco precedente dei nostri poteva essere equiparato al "Soundtrack from the Film More" dei celeberrimi colleghi inglesi, l'album in questione va paragonato allora col titanico "The Wall". Attraverso "Generation 13" il quintetto canadese si concede perciò un completo coinvolgimento nel gusto progressive, senza remore commerciali e freni artistici, imbarcandosi con decisione verso i classici stereotipi, nonché i prevedibili annessi e connessi, di ogni album concept che si rispetti.
Vale a dire: forte e solido concetto di base sviluppato in liriche ambiziose e, manco a dirlo, piuttosto pessimistiche e depressive - copiosa divisione in sottotitoli, ben 25 e per una durata totale di quasi settanta minuti - il tipico andare e venire di alcuni temi melodici trainanti, proposti a più riprese e con diverso arrangiamento nel corso della storia - la presenza di una grande orchestra ad arricchire e talvolta dominare taluni passaggi - la copiosa e continua intersezione di dialoghi, rumori ambientali, annunci ed effetti vari come complemento alle musiche e alle liriche (le prime decisamente al servizio delle seconde, a parziale sacrificio della proverbiale esuberanza strumentale della band).
Deus ex-machina del progetto è il bassista, e produttore, Jim Chricton: da sempre uno dei principali compositori e liricisti del gruppo, nell'occasione il biondastro e preparato musicista ha buon gioco ad imporre ai compagni questa ponderosa e più o meno autobiografica opera, avente per soggetto i problemi e le disillusioni di una generazione. L'ispirazione gli proviene da un misconosciuto libro di due autori americani, intitolato "13th Generation: Abort, Retry, Ignore, Fail?", neanche tradotto in Italia dato il suo ambientamento sociale prettamente statunitense. La tredicesima generazione americana è quella nata tra i sessanta e i settanta, in seria difficoltà in quegli anni novanta a trovare collocazione, ideali e prospettive decenti (poi vennero gli anni duemila ancora peggiori, con Bush succeduto a Clinton... ma questa è un'altra storia).
Il risultato del comune sviluppo dell'idea di base di Jim è un album intenso, ricco di spunti e di infinite pieghe sonore, esigente nel suo richiedere svariati ascolti prima di poter essere pienamente apprezzato. La cosa migliore, com'è sempre giusto che sia per questa tipologia di opere, è ascoltarsela tutta d'un fiato, dall'inizio alla fine, possibilmente con una decente dimestichezza con l'inglese che consenta buon accesso anche ai testi. Con "Generation 13" i Saga tolgono ai loro sostenitori qualsiasi dubbio sulla fondamentale essenza della loro ispirazione: sono un gruppo progressive, assolutamente di quelli buoni, anzi ottimi. Fossero stati più anziani di dieci anni, avrebbero inondato gli anni settanta di una cospicua serie di dischi come questo.
La già accennata convenienza a considerare e godere dell'opera come un tutt'uno non impedisce di poter estrapolare e menzionare alcuni dei suoi passaggi più riusciti, che non sono pochi: per cominciare, la squassante piega strumentale della traccia numero due "Theme #1", che imposta l'opera su di un quasi progressive metal, col chitarrone di Ian Chricton ad imperversare caricato di sciabordanti echi. Senz'altro l'affermazione mondiale, proprio in quegli anni, dei Dream Theater aveva convinto i Saga ad osare in questa direzione.
La quarta traccia "The Cross (Home #3)" racconta però che, più che verso i cinque fortunati newyorkesi, l'accostamento più appropriato è con i Queensrÿche, nello specifico col cantante Michael Sadler che si fa in quattro ad urlare a squarciagola il drammatico refrain (ehm, senza raggiungere ovviamente l'efficacia del fuoriclasse Geoff Tate), dopo che il tastierista Jim Gilmour ha offerto il suo timbro ultra progressivo alle inquietanti strofe.
Eccellente il riff malmostoso di Chricton, in quattordici ottavi, che sorregge la tosta e trascinante "The Learning Tree". Le capacità di adattamento a vari generi musicali, mantenendo ricca personalità ed efficacia, di questo chitarrista sono inesorabili: dovunque lo metti, dall'hard rock al pop al progressive metal, lui scalcia forte e svetta con il suo suono pastoso e mobilissimo, il suo fraseggio imprevedibile e dinamico, in accompagnamento come in assolo.
La traccia numero quattordici "We Hope You Feeling Better" è ingrassata da un organo liturgico (nelle mani di Sadler), alla Yes e quindi progressiva allo stato puro. "My Name is Sam" poco più in là è invece imbastardita dalla techno, da voci distortissime, da un delizioso piano elettrico con leslie alla Gentle Giant da far venire i lacrimoni agli occhi per la nostalgia.
La sedicesima traccia "Screw-em" è la mia favorita: ancora tanto Gentle Giant nel gusto per il riff chitarra + tastiera in contrappunto, poi esce fuori un organo clamorosamente alla Van der Graaf Generator che inaugura una sezione strumentale da favola, con tanto d'assolo di chitarra della madonna alla... Saga! Gran pezzo, tiro pazzesco, suoni che spaccano, goduria progressiva assicurata.
L'intro di "Tie Victim" è affidato ancora ad un organo molto vicino al Rick Wakeman pensiero, poi la chitarra solista prende a sguazzare incontenibile per l'ennesima volta, dando l'abbrivio ad un crescendo finale senza respiro: tre o quattro pezzi intensissimi uno di fila all'altro, prima del prezioso acquietamento d'epilogo verso lo stesso tema pianistico del prologo.
Per gli appassionati convinti della musica progressive "Generation 13" non può non rivelarsi come l'album preferito dei Saga, ovvero il primo da ascoltare nel caso questo nobile gruppo non faccia ancora parte del proprio bagaglio culturale. Ciò non toglie che esso sia da considerare un'anomalia di carriera, per quanto profondamente nelle corde dei musicisti coinvolti. In altri termini, un'isolata e preziosa digressione verso un ben preciso genere musicale, per una formazione che fa invece dell'incredibile ed inedito crossover fra vari generi (rock, disco pop, elettronica, persino folk britannico oltre naturalmente al progressive) elemento di mirabile peculiarità e, per quanto mi riguarda, venerabile efficacia.
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