Fine degli anni ’80, Bay-Area di San Francisco, la scena punk di Berkeley e paraggi è molto viva e tra le band che si scaldano nei dintorni del 924 di Gilmour Street ci sono nomi quali Operation Ivy, Green Day, Jawbreaker e Samiam.
Se dal nucleo storico e dalle ceneri dello ska-punk dei primi nasceranno i futuri Rancid, e per la storia dei Green Day si sono sprecati fiumi di inchiostro, con i Jawbreaker che imploderanno dopo aver lasciato il segno a meta anni ’90 con “24 Revenge Therapy”, i Samiam che si formano nel 1988 dalle ceneri degli Isocracy, possono essere considerati i losers del gruppo, nonostante con molti cambi di line-up siano sopravvissuti in questi 30 anni all’illusione di diventare qualcosa di più grande.

Alta (in)fedeltà.
Il nucleo storico dei Samiam è formato dalla coppia Jason Beebout il cantante e da Sergie Loobkoff (chitarrista) presenti dagli albori ad oggi, mentre il ruolo di bassista e quello di drummer hanno visto notevoli cambi, se si pensa che sono transitati dalla band ben 6 batteristi!
Del resto quando sei in un gruppo che non solletica troppo folle oceaniche o la tasca sinistra o destra che sia, le motivazioni possono anche venire a mancare e si decide di fare altro o migrare altrove.

Punk apolidi nella terra di nessuno.
Molte band, tante, non hanno successo, non è questo il punto, non sta qui la notizia. Nonostante, va detto Jason e Sergie il successo dei loro amici Green Day (con il quale hanno suonato diverse volte) l’avevano anche annusato del 1994 con la firma per Atlantic, vedere più sotto.
I Samiam in un certo senso sono figli di tutti e di nessuno. Sono un po’ dei punk apolidi con impronte lasciate un po’ ovunque, ma mai ben marcate in maniera indelebile. Anzi sinceramente a loro di essere troppo integralisti non è mai fregato troppo.
Del resto i dischi dei Samiam, come lucidamente affermato da uno dei due membri storici, non finirebbero quasi mai certamente né tra i Best emo 90’s records né tra i Best punk-rock 90’s records. Troppo poco disciplinati per essere un gruppetto pop-punk qualunquista, troppo poco integri per assurgere al trono hardcore.
La carriera dei Samiam, che conta otto dischi da studio all’attivo, è stata una vera altalena, e l’evoluzione a livello di sound percorsa negli anni è stata importante, pur non perdendo spontaneità e quei loro tratti caratteristici che li rendono comunque riconoscibili.

1994: point break
Se il 17 luglio 1994, più a sud della Bay-Area, precisamente al Rose Bowl di Pasadena l’Italia del calcio è ad un punto cruciale e quasi al culmine della propria avventura americana in bilico tra sogno e disperazione, poco più a nord i Samiam decidono di rompere gli indugi e firmare un contratto con una major (Atlantic) preparandosi a calciare il rigore decisivo. Il 23 Agosto ne uscirà “Clumsy”, il successore di “Billy”, ma l’accoglienza nonostante un hook al passo con i tempi come “Capside” con relativo video musicale sarà tiepida.

1996-1997: point break (in reverse)
L’Atlantic non ritenendosi soddisfatta, e con già un secondo disco pronto, decide di interrompere i rapporti con la band e si rifiuta di pubblicare il lavoro. Sono anni abbastanza burrascosi per la band, che dopo una disputa con mamma-major riuscirà ad ottenere, acquistandoli, i diritti del disco solo nel 1997: sarà la svedese Burning Heart a stamparlo dopo mille vicissitudini.

Fiammifero su sfondo mare-azzurro.
Se “Billy” (1992) era stato il disco del precariato post-hardcore che farebbe ridere sotto i baffi compiaciuti Bob Mould, Grant Hart e Greg Norton in un'istantanea fotografica periodo "New Day Rising" e “Clumsy” quello dell’illusoria stabilità a tempo indeterminato, “You Are Freaking Me Out” aggiorna le parabole cupe degli amori infranti declinandole in una prosa pop-punk urlata.
Che il trademark dei losers fatto di silenzi grevi e di rapide impennate emotive clamorose in fondo sia sempre lì lo dimostra “Factory” pezzo-totem da urlare a squarciagola. E si può parlare senza timore reverenziale di quella parolina composta da tre sole lettere, senza rischiare un'incriminazione per apologia di fascismo.
E poco importa se “She Found You” possa all’apparenza sminuire il loro valore banalizzando la formula, se poi puoi ancora bisbigliare sottovoce il flebile ritornello di “If You Say So” davanti l’orizzonte o tornare ad urlare all’unisono con Jason su “My Convenience” e “Full On”.
Sebbene, come già rimarcato, questo calzare più scarpe, non ha certo aiutato ad accrescere la loro audience né tra gli skateboarders cresciuti a birra, Converse e hardcore melodico alla Lagwagon né tra chi all’epoca era stato folgorato sulla via delle nuove (?) fascinazioni rock provenienti da nord direzione Seattle.

Facciamo risuonare le note di “My Convenience” all’unisono, stringiamoci forte, piangiamo e urliamo al cielo, dimentichiamo l’ultimo rigore del divin codino come i bocconi amari della vita e risorgiamo insieme dalle fiamme.

I think that our style has grown in a way that we are concerned in writing songs rather than trying to be punk or aggressive. Definately, I would agree with anyone that complained that we are no longer punk enough. That isn't a concern for us...we just try to make music. That isn't to say that we aren't considered loud, shitty punk by most people that don't listen to aggressive music. Hopefully, we have come to the point where both people that love punk music and others that hate punk, can like us. It has always been a goal for me to bridge that gap and get all sorts of people into what we are doing.”

(Sergie Loobkoff)









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