Avete presente quei soldati americani reduci da missioni in posti difficili, come Iraq e Afghanistan, che ritornano in patria segnati da mille ferite, traumi e tormenti, non tanto fisici quanto interiori? Ecco, Scott Weiland mi ricordava questa figura, un soldato reduce degli anni ’90 sopravvissuto ad altri suoi illustri colleghi dell’epoca grunge.

E invece è morto lo scorso 3 dicembre, in un tourbus che lo portava in giro per l’America per esibirsi in piccoli club con i suoi Wildabouts. E’ morto da solo, pare nel sonno, per un mix di droga, alcool e psicofarmaci. C’è chi non è rimasto sorpreso, anzi forse ci si sorprendeva che fosse ancora vivo.

Nell’ultimo anno della sua vita appariva ormai come un “dead man walking”. Le sue performance erano alquanto sottotono, la voce e la presenza scenica non erano più quelli di quando infiammava folle oceaniche insieme agli Stone Temple Pilots o i Velvet Revolver. Emblematica è la sua esibizione lo scorso 28 aprile a Corpus Christi, in Texas, dove si esibisce visibilmente fuori di sé muovendosi in maniera scoordinata e rallentata, stonando e sbagliando i testi, mentre la sua band continua a suonare come nulla fosse. Uno spettacolo triste che mi ricorda molto quello di Amy Winehouse a Belgrado nel 2011. Uno spettacolo che mai nessuno ferma, forse nel nome di un sadico e morboso “the show must go on”.

Dopo il debutto solista con 12 Bar Blues nel 1998, esattamente dieci anni dopo ritorna con “Happy” in Galoshes , un album concepito in quello che forse è stato l’anno peggiore per Scott, il 2007. Si era appena conclusa malamente l’avventura con i Velvet Revolver, ma lo scossone più forte è arrivato con la morte dell’amato fratello Michael stroncato da una overdose, circostanza che lo ha segnato profondamente ma che non gli è stata certo da monito, e poi la travagliatissima separazione da sua moglie Mary Forsberg. “Happy” in Galoshes contiene 10 canzoni, c’è anche la versione deluxe con 20 canzoni, e vanta la collaborazione di Steve Albini, Adrian Young, Tony Kanal e Tom Dumont dei No Doubt. E’ un album che mostra tutta la versatilità di Weiland, caratterizzato da una grande varietà di generi musicali. Si passa infatti dalla bossa nova in “Killing me Softly”, il country dal sapore dylaniano in “Tangled with your Mind”, la new wave in “Blind Confusion” e addirittura l’elettronica in “She Sold Her System”. Mai come in questo album Scott esprime tutta l’influenza che David Bowie ha avuto su di lui, emblematico è il brano “Paralysis”, che racconta con sensuale voce baritona l’amore tormentato per un’altra “sour girl”, e poi c’è la cover di Fame. Nella versione deluxe c’è anche la cover di “Reel Around the Fountain” degli Smiths.

“Happy “ in Galoshes è un viaggio introspettivo sincero ed intimo che Scott non ha avuto paura di condividere pubblicamente. Purtroppo è un lavoro passato inosservato all’epoca o volutamente snobbato, perché Scott faceva parlare di sé più che altro per i suoi problemi con la dipendenza da eroina anziché per la sua produzione artistica, perché Scott era considerato uno che agli esordi aveva scimmiottato i suoi colleghi dell’area di Seattle, accusa che ha creato forti pregiudizi sulla sua produzione artistica .

Che lo si ami o che lo si odi Scott Weiland è stato uno dei frontman più iconici, sexy e carismatici della storia del rock, una sorta di ibrido tra Iggy Pop, Mick Jagger e Jim Morrison, e con una delle voci più belle e originali.

In seguito alla sua morte, Billy Corgan ha detto di lui: “Se mi doveste chiedere chi reputo realmente le grandi voci della nostra generazione, io direi che sono lui, Layne (Staley) e Kurt (Cobain)”.

Grazie per la tua musica Scott.

Carico i commenti... con calma