Che dire di colui che ha avuto il privilegio d'essere ribattezzato, non senza (benevola) ironia, il "Jimi Hendrix giapponese"...? Sia fatta anzitutto una doverosa precisazione: al personaggio in questione simili etichette vanno fin troppo strette, e davvero non rendono conto di una leggendaria (oltreché misteriosa) personalità dell'"underground" nipponico. Parliamo di Shinki Chen, chitarrista idolo della scena locale (di fatto uno dei primi musicisti Rock giapponesi in assoluto), e artista riscoperto negli anni anche in Occidente, dove è ormai assurto al rango di artista di culto, conosciuto da pochissimi e apprezzato soprattutto dai seguaci dell'Acid Rock e di certa Kosmische Musik tedesca. I suoi pregevoli album, sia da solista sia come collaboratore a diversi progetti alternativi, sono merce rara per i collezionisti di mezzo mondo, nonché oggetto di vera e propria idolatria (non appaia esagerato il termine) da parte degli amanti di simili gioielli di musica "sotterranea".

Nato a Yokohama il 30 maggio del 1949, Shinki Chen aveva avuto la fortuna di militare in formazioni giovanili che riflettevano molto delle nuove mode musicali in voga nei '60, dal Surf al Rock'n'Roll, dal Blues elettrico al Beat d'importazione (Londra e Liverpool gli inevitabili punti di riferimento, Kinks e Yardbirds i gruppi più amati dal nostro); e salvo una breve parentesi alla batteria, la chitarra era sempre rimasta il suo strumento preferito, quello che di lì in avanti si sarebbe deciso a suonare professionalmente, sperimentando nuove sonorità e tecniche avanguardistiche con vena quasi "artigianale"; erano gli anni in cui imperversava l'uso del distorsore "fuzz", caratteristico della coeva scena californiana e destinato a diventare una costante nello stile di Chen: uno stile aspro, ruvido, corrosivo, marcatamente "freak" per filosofia, aperto a dissonanze e rumorismi vari come anche ad imprevisti momenti di fluidità e lirismo. Il nostro era quindi entrato a far parte dei Powerhouse, gruppo resosi celebre in patria (e non solo) per le chilometriche riletture dal vivo di classici come "Spoonful" e "Good Morning Little Schoolgirl", nonché titolare nel 1969 di un unico (e manco a dirlo, rarissimo) 33 giri. Sciolto anche questo gruppo, Chen aveva dato vita all'effimero progetto dei Foodbrain (un album anche per loro), prima di partecipare anche alla versione giapponese del musical "Hair".

L'unico produzione a suo nome è pertanto il qui presente "Shinki Chen & Friends" (1971), al contempo l'album in assoluto più noto nella sparuta discografia riconducibile al Nostro (e notevole anche per lo splendido ritratto di copertina); la band di supporto, ovvero i "Friends" cui allude il titolo, si compone di musicisti a prevalente orientamento Rock-Blues, pur con decise influenze acido-progressive che conferiscono ai pezzi un senso di precarietà, di imprevedibilità costante. Lungi dal mostrarsi semplici comprimari, i tre accompagnatori del leader (che è anche cantante ed esecutore di tutte le parti di chitarra solista) sono strumentisti affidabili, sicuri, abili soprattutto a sfruttare timbriche perfettamente inerenti al contesto sonoro in questione. Sono George Yanagi al basso, Shinichi Nogi alla batteria e l'esperto organista Hiro Yanagida, già collaboratore di Chen ai tempi dei Foodbrain. I sette pezzi in repertorio sono altrettante tappe di un ideale trip (superfluo sottolineare il ricorso alle droghe da parte dei musicisti) dominato dalla chitarra e dalle insolite sonorità dell'Hammond "trattato" di Yanagida, capace di offrire squarci di rara intensità e bellezza; torpido, sinistro a tratti è l'incedere del basso, mentre filtrate, quasi ovattate dal particolare missaggio sono le percussioni (vicine sono le sperimentazioni sonore dei Beatles più duri del "White Album", o di "Helter Skelter", per intenderci). A completare degnamente un quadro sonoro già compiutamente definito (e senz'altro originale, nonostante gli inevitabili riferimenti) è la perentoria vocalità di Chen, i cui timbri stanno a metà fra quelli di John Wetton e quelli di James Litherland dei Colosseum: una voce adatta sì al Blues stralunato del gruppo, ma priva delle cupe ed austere inflessioni imposte dai canoni del genere; ugualmente lontana è l'ostinata predilezione per i toni acuti ed enfatici di certi cantanti Hard del periodo; una voce che suona riverberata, a tratti inquietante, incisiva quanto basta per farsi strada in un muro sonoro a tratti sottile, a tratti costante e impenetrabile. Considerando infine le condizioni innegabilmente "low-budget" in cui l'album è stato realizzato, più che buona (per non dire eccellente) può considerarsi la qualità della produzione.

Sperimentale, direi quasi sconcertante è l'esordio di "The Dark Sea Dream": giochi di nastri rovesciati e feedback chitarristico riempiono un quadro d'insieme dai contorni più che mai incerti, a metà fra l'onirica sospensione di atmosfere smaccatamente "cosmiche" e le rabbiose sferzate strumentali del leader; l'esito finale è però sorprendentemente assimilabile, a testimonianza di un approccio tutt'altro che casuale e meramente rumoristico. Riff di acidissimo Blues solcano la splendida "Requiem Of Confusion", in un marasma di suoni filtrati e "distanti"; più sostenuto il tessuto ritmico della successiva "Freedom Of A Mad Paper Lantern", Jazz in apertura e molto somigliante, nelle cadenze, a quella "Old Brown Shoe" che George Harrison aveva firmato appena un anno prima, fra gli ultimi pezzi incisi dai Beatles. Nella sognante (e "pink-floydiana") "Gloomy Reflections" si tenta con successo la carta dello "slow", con l'organo a creare atmosfere astrali e magnifiche, e la chitarra ad eseguire affascinanti ricami. Duro l'approccio in "It Was Only Yesterday", in cui Yanagida imita Brian Auger ritagliandosi uno spazio solista e Chen si prodiga in fulminanti e maestosi fraseggi, mentre la lunga "Corpse" si sviluppa su tonalità minori e procede con andamento ancora una volta rallentato (decisivi anche qui i puntuali interventi dell'organo, tutt'altro che semplice cornice alle evoluzioni del solista). Le ottime intuizioni già espresse per tutto l'arco dell'album vengono infine confermate e riassunte nella conclusiva maratona (in vago stile Deep Purple) di "Farewell To Hypocrites", strutturata in più sequenze alla maniera di una originale e variegata suite "acida".

Quattro stelle a un'autentica leggenda che gli appassionati di certo Psych-Rock hanno l'obbligo di riscoprire.

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