Ruffiani, rapinatori a man bassa, surfisti dell'onda rubata, ma anche gradevoli questi australiani al loro esordio, datato 1995.

All'epoca i ragazzi avevano pressappoco una quindicina d'anni e scrivere un album come "Frogstomp" a quell'età li candidava come nuova promessa nel panorama post-grunge.

Forti della botta di culo per un concorso vinto ("Pick me"), grazie al singolone "Tomorrow", sorta di semi-ballad con inserzioni distorte e urlate nel ritornello, trasmessa a più non posso dalle radio americane, i Silverchair entrano in studio con il colosso Sony/Epic e, in soli nove giorni, danno alla luce quello che sarà il loro album di maggior successo (ben 8 dischi di platino).

L'opener "Israel's Son", dal suono sporco e distorto, con la voce filtrata a dovere, ci dà subito un'idea sul lido dove vogliono approdare i Silverchair, una sorta di hard rock grezzo con rimandi fin troppo evidenti ai grandi della scena di Seattle: Nirvana in primis, Soundgarden, Alice in Chains, con una spruzzata di Pilots al seguito. Apprezzabile l'accelerazione finale con epilogo Cobainiano. L'album scorre tra echi di metal alternati ad arpeggi delicati ("Faultline","Pure Massacre"), ballad con finali aggressivi  ("Shade", "Suicidal Dream"), riff cavernosi e caotici in bilico tra Soundgarden e Nirvana, tenendo sempre presenti i grandi Alice in Chains ("Leave Me Out", "Undecided"), sfuriate punkeggianti (la strumentale "Madman" e la conclusiva "Findaway").

Questo disco ha sostanzialmente il merito, visto l'enorme successo commerciale, di rappresentare uno spartiacque e una linea guida per tutte le band post-grunge che seguirono e, se si pensa che gli autori erano ancora degli adolescenti, il risultato finale è davvero sorprendente.

Consigliato.

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