Bookends è la storia della gente comune. È la storia dell'America minore. È vivere non guardando, ma vedendo. La realtà dipinta con poche pennellate non troppo corpose, ma neanche leggere. Sono le impressioni di due giovani uomini che stanno crescendo, che stanno diventando famosi quando meno selo aspettavano e che rispondono al mondo con un sussurro. Simon & Garfunkel, una sigla, o semplicemente un nome e un cognome, di due semplici ragazzi. Due voci, due onde, che alternano amari flutti scuri a spumose denunce di insoddisfazione. Si muovono tra le donne che tornano a casa con la spesa, stanche e senza il tempo per fermarsi, per pensare a quel che davvero desiderano. Uomini che fumano nel freddo muovendosi lungo i viali vicino al Sunset Boulevard, zig-zagando i dolori e cercando un po' di speranza in fondo a dure, monotone giornate urbane.
Mentre Bob Dylan vuole spaccare il mondo e i Beatles farne uno nuovo, Simon & Garfunkel si chiudono nel loro piccolo universo, cercando di salvare ciò che di buono è rimasto. È con occhi apparentemente innocenti e insicuri che ci guardano dalla scarna, meravigliosa copertina. Forse non hanno bisogno di pose ed atteggiamenti, forse hanno già davanti a sé l'immagine dei loro orizzonti. È una ricerca del puro, del genuino, dei sentimenti veri, più forti, e finalmente con una maturità e una consapevolezza che era mancata nei primi (comunque interessanti) lavori dei due giovani artisti. L'illusione concreta, la fiducia evanescente che la quotidianità in fondo abbia quel che cercavamo. Ma cosa cercavamo? Qualcosa di buono, la mitologia dell'ordinario si riveste di straordinarietà, fare le linguacce da un autobus, rimanere a parlare insieme con gli anziani, ascoltare ciò che hanno da regalarci, storie di mariti morti in guerre lontane, amori ingialliti di cui vogliamo imparare magie ed errori. Riflettere alla finestra, meravigliarsi della bellezza di un fiore, perdersi dentro uno zoo, sorridendo per colpa di una donna e scherzare con gli animali. Non c'è aria di rivoluzione, ma di riforma. E quindi non si rinnega (per ora) il fedele folk alla bruta maniera di un Highway 61, ma si inghirlanda di delicati, gentili, a volte frenetici abbellimenti. Le percussioni di Mrs. Robinson faranno scuola, in quell'aria di eccitazione dove non siamo più bravi ragazzi ma nemmeno ribelli troppo rumorosi.
Azzeccatissima risulta infatti la scelta delle canzoni del duo per la fortunata colonna sonora dell'epocale "Il Laureato" di Mike Nichols (1967). Il film è forse la perfetta trasposizione cinematografica di quella stessa atmosfera, di quelle stesse personalità di cui parlavamo: il personaggio di Dustin Hoffman è quasi un alter-ego di Paul Simon e degli eroi che animano i suoi sensibili racconti. Questi non sono i giovani visionari e bizzarri di "Easy Rider", né quelli tormentati e sbandati come il Jack Nicholson di, ad esempio, "Cinque Pezzi Facili": sono poeti piccolo-borghesi che hanno bisogno di trovare un ideale, un valore, una donna per cui sacrificarsi, vogliono credere e abbandonarsi in qualcosa che possa durare, sono cacciatori e amanti del tempo. Vogliono dare un futuro ai bambini che stanno per nascere, salvare il passato dei nonni, la loro saggezza come elisir di lunga felicità. Si registrano i rumori della vita per recuperarli e per valorizzare quel che sarebbe una "semplice" canzone. Che così diventa un corpo a tre dimensioni. All'interno di questa breve dozzina di racconti possiamo sentire testimonianze, porte sbattute in faccia, battiti di mani e cori assordanti, risate, bottiglie e vetri che risuonano, fischietti, sigarette accese prima di cominciare a cantare...e per rassicurarci tra una nuova scoperta e un altra, tanti zuccherini blues-rock'n'roll serviti in piatti d'argento solo per farci sentire che siamo comunque vicini a casa, al sicuro, nell'America più sincera, che si interroga appena imbronciata, ma (per la gioia dei marzulliani) sa anche darsi una dolce, decisa risposta.
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