"Tarots and the North" (dodici scritti abbinati ciascuno ad un Arcano Maggiore di Luis Royo)

"VIII. The Tower"

«E narrano che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora, impietosito, pronunciasse queste parole: "Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un amico mio, l'ho riconosciuta udendone la voce"». Senofane, l'aedo che a novantadue anni suonati ancora vagava arzillo per l'Ellade, intonando i suoi canti polemici contro i maggiori sistemi religiosi dell'epoca, riservò questo scherzoso aneddoto alla credenza, condivisa da diverse sette, in una serie incalcolabile di reincarnazioni, necessarie al fine di espiare una colpa primigenia ed estesa a ogni vivente. Lo studioso di storia del pensiero musicale dovrebbe essere familiare con il concetto di "metemsomatosi progressiva", avendo certamente assistito al suo verificarsi in più occasioni, quando lo spirito artistico di un gruppo morente trasmigra, anche a distanza di decenni, verso il "corpo" di un'altra formazione disposta ad accoglierlo e a portare avanti il suo apostolato.

In questo caso però possiamo soltanto armarci di sano scetticismo ed utilizzare la protervia e il dileggio senofanei come faro attraverso le nebbie stilistiche dei melliflui Simon Says, quintetto svedese tornato in scena, a sei anni dal discreto "Paradise Square" e a ben tredici dal mediocre esordio "Ceinwen" del 1995, con "Tardigrade", ambizioso colosso sinfonico che, sin dalla primissima nota, imita la "voce di un amico" comune a tutti gli amanti della cultura progressiva, scomparso nei paesaggi "banksiani" di "Wind and Wuthering" ed incessantemente rievocato da un'interminabile schiera di epigoni, mai davvero in grado di esplorare quell'ambiente incantato senza perdere l'orientamento e ritrovarsi in sentieri già battuti o di fronte a ostacoli invalicabili.

Non stupisce perciò constatare come l'audace impresa, presuntuosamente annunciata dalla tastiera del nuovo acquisto Magnus Paulsson, possa invece degenerare con disarmante facilità nelle confortevoli dinamiche di un safari guidato, dove i gioviali strumenti, alla stregua di turisti curiosi e puerili, si limitano a fotografare il territorio, immortalando scenari vividi e screziati quanto essenzialmente anonimi e costretti nei limiti di una formula collaudata, immune alle intermittenti pulsioni metal della batteria di Matti Jarlhed, memore del suono ibrido dei connazionali Pär Lindh Project ("Suddenly the Rain").

Le rivendicazioni, colme di carattere e mordente, del basso di Stefan Renström, invece di riscattare l'orgoglio del gruppo, mostrano un'allarmante carenza di spessore ("Tardigrade", "Strawberry Jam"), esemplificata dalla voce "sintetica" di Daniel Fäldt, formalmente gradevole ma del tutto incapace di trasmettere anche la più flebile emozione, conferendo un effetto tragicomico ai pochi momenti davvero ispirati della tastiera ("As the River Runs") e della chitarra ("The Chosen One"), alla quale spetta comunque il merito di una breve ma interessante escursione ai piedi di un monte isolato e suggestivo ("Moon Mountain").

Dopo quasi cinquanta minuti di sconclusionati girotondi, animati dal ritmo di ballate prescindibili e a tratti melense ("Circles End", "Beautiful New Day"), si erge la sagoma di un'imponente costruzione, entusiasticamente percorsa dalla solita tastiera e dalla chitarra di Jonas Hallberg, le quali, sciogliendo le già scarse inibizioni, si lanciano in una superflua gara nel segno di un autocompiacimento talmente ingombrante e gravoso da provocare il cedimento di una struttura già di per sé precaria e inadeguata a sorreggere il peso di tale cupidigia ("Brother Where You Bound"), determinando il crollo di una torre maestosa ma fragile, cifra perfetta di un'opera attraente quanto ingenua e destinata, come lo splendido Narciso, a soccombere contemplando la propria immagine, troppo bella per il suo stesso bene.

«We watch, in reverence, as Narcissus is turned to a flower... A flower?» (Peter Gabriel, "Supper's Ready")

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