Posso autodefinirmi un seguace degli “Snarky Puppy” dal 2010 e posso ammettere il mio “problema”: sono in assoluto il mio gruppo preferito.

Quando è stata comunicata la data di rilascio di “Culcha Vulcha” non ho fatto altro che prenotare l’album in anteprima dal mio rivenditore di fiducia. Mentre scrivevo, tremebondo, per la prenotazione, avevo la stessa faccia di Homer Simpson nell’istante in cui fantastica sui donuts.

Tornano in studio per il loro undicesimo album… no dico, undicesimo album in dieci anni di attività: mostruosi! Dicevo, prima di auto interrompermi, che “Culcha Vulcha” è stato registrato negli studi di Tornillo, Texas e Brooklyn, New York, il tutto mixato da Nic Hard, cosa assolutamente diversa rispetto agli ultimi sette album, tutti live (DVD incluso).

Ammetto che, a mio avviso, non è il loro miglior album (che è palesemente “We like it here” del 2014, già recensito benissimo, e me ne complimento, su questa bacheca), ma ci sono dei brani che sono veramente goduriosi.

“Tarova”, brano che apre questa cartolina musicale, spiega le vele con una “hammondata” di Cory Henry che spiana la partitura al tema di fiati. Il solo di Bobby Sparks al minimoog é una delizia di stile, ma viene spazzato via dal groove finale della chitarra baritona di Lettieri, raddoppiata violentemente all’unisono dal Moog Sub Phatty di Michael League.

Si passa a “Semente”, un “Tio Macaco” 2.0 se vogliamo, un po’ mariachi, ma con la costante di essere assolutamente divertente grazie al flauto di Chris Bullock a disegnare sin dagli inizi una melodia disimpegnata sulla quale si articolano gli incastri ritmici di Ogawa, Werth e Woloski. La melodia viene ripresa, arrangiata in maniera polistrumentale, sia dal sax tenore di Reynolds, che dal violino di Brock, fino al solo ispirato del flicorno di Jennings.

Questi primi due brani sono stati scritti da Michael League, esattamente come i prossimi due, che rendono “Culcha Vulcha” un album gradevolissimo.

La traccia di chiusura è “Big Ugly” in cui il Moog Bass del leader degli Snarky Puppy incontra la tessitura per ottoni e il piano armonico del Prophet 6 di Justin Stanton, talento in rampa di lancio della big band newyorkese. Ancora Zach Brock, con un violino distorto, impreziosisce il brano, fino a quando non si scontra con il solo superfree, decisamente fuori da ogni pensiero, del Moog, inconfondibile, di Cory Henry, musicista sublime, sicuramente tra i migliori tastieristi di questa decade.

Ritengo che il brano principale, con più contenuto, sia “Grown Folks” (di cui allego una versione con Esperanza Spalding). Ci aprono le porte di casa Michael League con l’introduzione sullo small bass e Chris Bullock con il sax tenor. Il tema è ovattato dalle sordine nelle trombe di Maher e Jennings, ma ben presto parte lo scambio tra i due trombettisti ed il Moog Bass, divertente, quanto complesso. L’ostinato al pianoforte di Bill Laurance apre le corde di Lanzetti ed il fiato di Bob Reynolds, mentre le metriche spassosissime di Larnell Lewis e Robert “Sput” Searight arricchiscono e completano la ricca amalgama del brano. Mi ripeto: mostruoso!

“Gemini”, di Stanton, ha molto di ondivago, space-music per intenderci, così come “Beep Box”, che potrebbe essere stata tranquillamente scritta da Edgar Froese (invece è di Chris Bullock), in “GØ”, sempre di Michael League, viene fuori la chitarra ovattata di Chris McQueen, si scopre il dinamismo di Stanton (che è sia trombettista che tastierista di livello) e c’è spazio anche per “The Maz” alla tromba; Lanzetti dice la sua con “The Simple Life” premiando il gruppo cordofono delle chitarre snarkiane e “Palermo” si arrampica in un arrangiamento labirintico in cui le ritmiche volute dal percussionista argentino Marcelo Woloski, scandiscono le dinamiche su cui fluttua l’organo di Henry, il capo apostolo del funky.

L’album sarebbe finito, ma una ghost-track, “Jefe”, è una signora ghost-track, come ne vorresti sempre sentire: funky-ssima, da farti concludere con il sorriso.

Un album davvero bello, variegato e variopinto, che non arriva, come detto, a “We like it here” e nemmeno ai momenti divertenti di “Ground Up”, ma sicuramente è un atto di forza di una super band che sta scrivendo pagine di musica in questo primo nuovo millennio.

Io li ho ascoltati quattro volte live e aspetto con ansia la quinta, la sesta, la settima… sperando, citando nuovamente i Simpson, di non finire nell’attesa a fare questo: https://www.youtube.com/watch?v=pOE8daIUX7U

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