Un’espressione comunemente impiegata nella critica e storia del Rock è che per verificare che una canzone sia “realmente” una buona  canzone è necessario spogliarla della sua veste musicale elettrica, sinfonica, orchestrale, elettronica, ed eseguirla nel modo più scarno possibile, con chitarra acustica e voce.

“The Infinite Circle”, atto secondo dei Sophia sembra quasi voler ribadire simbolicamente il concetto sin dalle note iniziali avvertendo l’ascoltatore, con una sorta di “mind the gap” temporale rispetto al (mai troppo poco rimpianto e mai sufficientemente ricordato) passato del leader Robin Proper-Sheppard. L’impressione che se ne ricava necessita in realtà di essere approfondita attraverso ascolti successivi: "The Infinite Circle" sembra non voler essere nelle intenzioni dei suoi autori il “nuovo corso dei” God Machine nè avere la pretesa di racchiudere il “post-" God Machine sound; anche se costruito attorno alla forma della ballata e catturato da atmosfere in chiaroscuro rivela ben più punti in comune dell’apparente distanza interstellare con quell’esperienza fatta di infuocati walls of sounds e rock declinato in senso industriale che l’impatto di queste ballate delicate e lievi sembra rimarcare in termini di differenza sull’ascoltatore. Di più e con maggiore autoconsapevolezza del suo predecessore “Fixed Water” questo disco mette a fuoco la cornice poetica, lirica e lo sfondo umorale ("mood") della scrittura di Proper-Sheppard, che ne costituiscono il tratto di continuità, l’elemento di maggior pregio e valore simbolico e letterario, oltre che musicale, essendo forse la perdita di intensità emotiva il suo lato più fragile, probabile prezzo da pagare alla maggiore coesione e integrità concettuale.

Come sempre le canzoni dei Sophia sono incentrate sul binomio “love-lost love” ciò che traspare chiaramente da “If Only”, “I’d Rather”, “Woman”, “Within Without”, tutte caratterizzate dall’attacco con la chitarra classica di Robin, voce più bassa, intimistica, non più alla Perry Farrell, e la successiva apertura orchestrale, ciò che manca in parte a “Sometimes” voce lievemente distorta, e stridente con l’intimismo delle chitarre acustiche; i due episodi che rompono questo pattern omogeneo sono l’opener “Directionless” (“I say goodbye to my best friends”) una specie di intimo addio, fuga come ideale varco dalla/nella confusione interna, ed “Every Day” luminoso gioiello pop finemente intagliato, che raccoglie l’eco lontana degli Oasis più pacati e malinconici (“The Masterplan”, “Wonderwall”). Anche se in apparenza la quasi-enclosure “The River Song” percorsa da riffs noise-core ed “Electrical Storm[ed]” sembra distaccarsi dal resto dell'album, il pezzo sottende ancora una volta una pur rabbiosa invocazione di pacificazione interna e protezione da ferite che Proper-Sheppard non riesce a celare in profondità (“I go to the river, to find someone, someone who protects me from where I began”), luoghi della sofferenza oltre che sofferenza dei luoghi, intimistica messa a nudo della propria anima come geografia interiore; il drumming di Jeff Towsin, ex-Swervedriver (altra band della corrente shoegaze) del resto è assolutamente identico a quello di Ron Austin, con stacchi, stop and go, controtempo, sospensioni, a delineare un profilo ritmico che tende all’infinito, una sospensione del tempo narrativo-musicale, le aperture armoniche di archi e i tocchi di piano fanno il resto; scrutando sotto la superfice metal-iper-concettuale di “...Second Storey” troviamo in fondo delle canzoni intrise di lirica e a tratti disperata tristezza, a tratti illuminate dalla stessa luce del sole dopo la tempesta, se in quei due albums c’erano “Boy By The Roadside”, “The Life Song”, “I’ts All Over”, “Purity”, nei due dischi dei Sophia troviamo “Bastards” con la sua melodia circolare e infinita, sempre più larga e “lontana”, la citata “Woman”, e “So Slow”… mai leggere i titoli troppo alla lettera, la lentezza del titolo potrebbe non essere solo il riferimento al refrain  come l’infinite circle del titolo è un'immagine potentemente simbolica, l’io narrante che dichiara lo smarrimento iniziale (“I’m loosing My Direction…”) e finale ("I'm going to the river to find someone, someone who protects me when, the night has come") è altresì conscio che per quanto circolare e infinita questa pathway esistenziale è appunto obbligata.

In fondo, si tratta di un titolo rassicurante. Termini di paragone ce ne possono essere tanti, dai madrigali solenni di Echo and the Bunnymen alla luminosa freschezza dei migliori Verve, essendo forse i Radiohead del periodo “Ok Computer” il punto intermedio di maggiore sintesi, e maggiore vicinanza poetica, per chi segue Robin Proper-Sheppard, e non senza difficoltà vorrà continuare a farlo.

By ’πνοςphere boy ©

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