In principio c'erano i God Machine, promettente e potente band di San Diego, nata nel 1990 e scioltasi poco dopo per la scomparsa del bassista Jimmy Fernandez. In seguito a questo tragico evento, Robin Proper-Sheppard decide di intraprendere la carriera solista, dando vita ai Sophia, la sua one man band e sopratutto di cambiare decisamente registro, abbandonando l'irruenza sonora che aveva contraddistinto gli esordi dei God Machine, e mettendo a nudo il suo lato più intimista e tormentato.

Dopo l'opera prima "FIXED WATER", notevole ma ancora un pò acerba nei suoni, nel 1998 (stesso anno di "OK COMPUTER" dei Radiohead, è scusate se è poco!) i Sophia danno alla luce "THE INFINITE CIRCLE", un album nel quale tutto è perfetto, dagli arrangiamenti, allo spessore delle tracce, che non paiono celare punti deboli. La capacità di Sheppard di emozionare l'ascoltatore, viene fuori qui in maniera evidente, grazie alla spiccata sensibilità del songwriter che si libera di tutto ciò che ha dentro, non solo con testi introspettivi, decadenti e intimi, ma anche in virtù del calore dei suoni e del vibrante turbine di sensazioni che il suo timbro vocale innesca.

L'incipit iniziale di "Directionless" mette subito le cose in chiaro, evidenziando il senso di smarrimento nel quale Sheppard brancola ("losing my direction"). Gli infiniti cerchi nei quali gli arpeggi della chitarra acustica ci rapiscono, vengono "riscaldati" da un basso essenziale ma mai banale e in misura ancora più importante dallo spendido uso della batteria, che insiste sui rullanti, sincopati e spesso smorzati in controtempi che concedono alle tracce un atmosfera sospesa e fortemente evocativa, come avviene ad esempio in "I'd rather". "Every day" ha un respiro quasi progressive, nell'accezione meno tecnica e banale del termine e qui l'incastonatura elettro-acustica è pressochè magistrale.

Il tepore della tristezza. Questo potremmo dire di "Woman", ballata malinconica nella quale il progressivo ingresso degli strumenti riscalda l'atmosfera per deflagrare in un finale mozzafiato. Quando già si è largamente appagati da un disco meravigliosamente noioso, ecco arrivare "bastards", un vero e proprio scrigno di emozioni, la chiave di volta delle corde dei nostri sensi, nella quale l'uso di archi e pianoforte è di indescivibile efficacia. Il pezzo più rock è senza ombra di dubbio "The river song", altro tassello fondamentale per chiudere il cerchio infinito, una cavalcata condotta da una sezione ritmica incalzante e domata dai suoni distorti e acidi della chitarra elettrica.

Giù il cappello signori, davanti ad un'opera di livello eccelso, difficile da catalogare e da collocare in una scena rock arida e monotona. Sarebbe più politicamente corretto citare gruppi di riferimento e lanciarsi in rischiosi paragoni, ma molto più probabilmente è giusto dire che i Sophia sono i Sophia e nient'altro, perchè incarnano come nessuno il fascino della malinconia e dello smarrimento.

Ascoltateli!

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