L'entità Sopor Aeternus è da sempre una divinità stra-venerata nel tempio della musica di casa mia: dal dark acerbo dei primi demo, ai sublimi lavori della maturità, fino alla svolta elettronica del superbo "La Chambre d'Eco", la qualità della gestazione artistica di Anna-Varney Cantodea si è mantenuta negli anni a livelli più che eccelsi, con opere sempre diverse ed ispirate oscillanti, a mio parere, fra l'ottimo e il buono.

Venerazione che però è andata un po' è scemare da quando i lavori di Sopor Aeternus hanno principiato a circolare in tirature ultra-limitate e per giunta nella dispendiosa forma di cofanetti a prezzi improponibili e proibitivi fin anche per le tasche di un Lapo Elkann.

Ad oltre un anno dalla sua uscita, "Les Fleurs du Mal" compare finalmente sul mercato nella versione canonica ai ragionevoli 18€. Tirando un sospiro di sollievo, mi sono subito lanciato nell'acquisto tanto agognato. Ma quale sorpresa è stata per me, sfogliando il copioso libretto rosa (!!!) che correda il cd (ricco come al solito di foto che ritraggono "il Nostro" nelle pose più bizzarre ed allucinanti), ritrovarmi innanzi ad un tale stravolgimento della poetica visiva che da sempre costituisce una componente fondamentale nell'arte di Sopor Aeternus. L'artwork, curatissimo come al solito, mostra infatti immagini e foto (a modo loro) divertenti, sprizzando un humour, seppur macabro, assai insolito se si tiene conto dell'artista in questione.

E sì, con "Les Fleurs du Mal" Anna-Varney sembra aver scoperto finalmente il cazzo!

Dopo anni di fregnacce, lamenti, testi del tenore "che schifo che faccio, che schifo tutto, lasciatemi in pace, lasciatemi al buio, voglio morire nella solitudine", sembra che il percorso di accettazione del proprio corpo e del proprio orientamento sessuale sia infatti progredito alla grande! Se il sempiterno complesso di inadeguatezza non viene del tutto superato, è infatti percepibile un lieve alleggerimento dei toni e delle atmosfere, che si fanno decisamente meno asfissianti e lugubri che in passato.

Sì, c'è dell'accettazione in "Les Fleurs du Mal", in esso scaturiscono e fioriscono, sotto forma di acuto sarcasmo e gusto per lo sberleffo, tutte le frustrazioni sessuali accumulate in una vita di ossessioni e paranoie: fantasie omosessuali si mescolano alle nevrosi di sempre, in un connubio allucinante di schizofrenica incapacità di gestire la propria emotività. Ma per quanto sia un'esperienza tragica ed amara, "Les Fleurs du Mal" è a modo suo un album gioioso (!!!), furiosa e sconclusionata manifestazione di energie e pulsioni rimosse e riemerse all'improvviso. "Les Fleurs du Mal" è inafferrabile ed imprevedibile, proprio perché scaturisce da un moto dell'anima ambiguo, attraversato da dolore (sì, perché il cammino verso la serenità è ancora lungo!), ma che a tratti sa tingersi di ironia, sarcasmo (come se si volesse prendere un certo distacco dalle proprie sofferenze) e perfino di irriverenza (soprattutto nell'attacco, inedito, alla ipocrita e fasulla concezione borghese della sessualità e dell'amore, come se finalmente si percepissero delle criticità al di fuori del proprio Io, fino ad un momento prima severamente bersagliato come unico responsabile dei propri affanni esistenziali).

Un'avvisaglia degli umori che percorreranno l'opera l'abbiamo del resto dal bollino "Heterosexual Advisory: Transgenital Content" che campeggia in copertina.

Sfogliando il booklet ci imbatteremo inoltre in testi a dir poco espliciti, come quello di "A Little Bar of Soup" (dove il Nostro vorrebbe essere una piccola saponetta per poter raggiungere i luoghi più reconditi ed intimi del corpo umano!), oppure in versi tipo "So, listen closely, girls and boys, this song is about HAEMORRHOIDS, not anyone's, but mine of course... a secret part I now disclose" (da "The Simple Joys of Maidenhood"), dove a venir in mente è il Gilbert Turko di "Querelle di Brest" (di Jean Genet) che, schernito dai compagni perché ritenuto una checca, trova sollievo nell'accarezzarsi le emorroidi, prova cangiante della sua integrità sessuale.

E la musica? Beh, devo dire che il primo ascolto è stato un lungo sbadiglio di 75 minuti!

Da un punto di vista stilistico, infatti, l'entità Sopor Aeternus fa un passo indietro e torna ai barocchismi sbilenchi di un album come "Es Reiten die Toten so Schnell", senza però rinnegare del tutto quanto di nuovo era stato introdotto da "La Chambre d'Eco". Varrebbe a dire che anche se le soluzioni elettroniche vengono quasi del tutto accantonate, viene fatto salvo lo spirito "poppeggiante" che aveva caratterizzato l'album della svolta.

Ci troviamo così fra le mani una sorta di "dark/pop da camera" o, se si preferisce, una sorta di "transexual pop" esasperato ed esasperante che si pone ad un livello ulteriormente avanzato del già dilaniante gay-pop ottantiano dei vari Marc Almond e Boy George.

Del resto la riproposizione di "Bitter Sweet" dei Roxy Music rimane la prova cangiante di un riavvicinamento ad una sorta di wave romantica di altri tempi, riletta attraverso i suoni medievaleggianti del consueto ensemble da camera: viole, violini, tube, tromboni, organo e clavicembalo vanno così a disegnare melodie orecchiabili, solenni, incalzanti che paradossalmente vanno a ricalcare le linee melodiche e l'orecchiabilità delle grandi glorie degli ottanta (Depeche Mode e Duran Duran in primis). Una batteria ed un basso sempre presenti e pulsanti garantiscono una discreta dinamicità all'interno delle composizioni, caratteristica per altro già riscontrata negli ultimi lavori.

L'unica novità introdotta sembra essere quindi l'utilizzo di ben due cori: uno composto da fanciulli e uno da omaccioni che, alla stregua di Village People in versione pacchian-gotica, gorgheggiano sgallettanti e pomposi sortendo un effetto volutamente comico.

Se da un punto di vista strettamente musicale ci troviamo quindi innanzi alle solite scampanate, alle solite strombazzate da banda di paese, ai soliti strumenti acustici che si arrovellano sui medesimi giri di sempre, è anche vero che la dimensione strettamente musicale è in Sopor Aeternus il mero palcoscenico su cui si compie la tragica messa in scena di Anna-Varney. E così a reggere il gioco rimane sostanzialmente il folle svolazzare di quella voce unica, androgina, asessuata, indefinibile, esasperante, chiamata a rappresentare, di volta in volta, i crecchi di un bambino ("La Mort d'Arthur") come i pianti di una vedova novantenne ("Les Fleurs du Mal").

Una voce straziante, sgraziata, allucinata che canta il suo pop dolorifico a suon di acuti lancinanti ("Bitter Sweet"), vagiti grevi e tremolanti ("Always within the Hour"), improvvise impennate di pazzia ("Helvetia Sexualis"). Senza disdegnare, obviously, quegli eccessi e quei guizzi teatrali che da sempre contraddistinguono lo stile mai sobrio di Sopor Aterenus (basti abbandonarsi ai tredici minuti della colossale "The Virgin Queen"!).

Il tutto arrangiato ed architettato con la consueta professionalità.

Cosa non va, allora? Sostanzialmente il fatto che rimangono 75 minuti di paranoie, pianti e grida isteriche; pezzi di otto, dieci, undici, tredici minuti, troppo lunghi, troppo prolissi per non intorbidire almeno un po' le palle durante l'ascolto. Pezzi spesso molto simili fra loro, sempre sopra le righe, ma alquanto privi di mordente o di momenti che possano rimanere in qualche modo impressi nella memoria.

E' poi amaro constatare la perdita definitiva delle atmosfere criptiche ed arcane che tanto avevamo apprezzato in passato: non più, quindi, tumuli di ossa marcescenti, terricci umidi, fiori tombali, catacombe fangose, bambini morti, lutti insanabili ed amanti irrimediabilmente infelici a piangere per l'eternità, bensì minchie spropositate, prodotti di bellezza/bruttezza, profumi a base di vere lacrime, creme che riducono le dimensioni del pene, muscoli flessuosi e in tensione (ben descritti "In der Palestra") e fregnacce da checca isterica ("Some men can truly be like chocolate, but most of them are more like SHIT" recita "Some Men are like Chocolate").

Per tutti questi motivi ad un primo ascolto possiamo rimanere alquanto perplessi, se non mortalmente annoiati o perfino delusi. Ma Anna-Varney rimane un artista che sa quel che fa e la cui musica esiste in quanto esistono delle emozioni da comunicare. E così, armati di santa pazienza, e messi da parte tutti i preconcetti legati a quello che Sopor Aternus era un tempo e che oggi non è più, potremo, negli svariati ascolti che vorremo dedicare a questo "Les Fleurs du Mal", cogliere via via sempre nuove sfumature: come infatti sempre succede negli album targati Sopor Aeternus, la sostanza emerge nella lunga distanza, a maggior ragione in "Les Fleurs du Mal", data la mole e la quantità di suoni, soluzioni, dettagli, suggestioni, passaggi da carpire con attenzione, dedizione, devozione.

Un album meno visionario, quindi, meno estremo nell'esplicitazione del dolore, e maggiormente sereno (si fa per dire) e disteso nei toni. Un album sincero, partorito da una mente irriducibilmente folle ed alterata, che va inevitabilmente e fedelmente a rappresentare un ulteriore fase del frastornato percorso artistico ed emotivo di questa creatura unica ed allucinante dell'intero panorama dark.

Se quindi siamo lontani dalle atmosfere fascinose e dilanianti di capolavori come "Dead Lovers' Sarabande" parte prima e seconda, c'è quindi da dire che Anna-Varney non delude, bensì cresce, si evolve, supera l'immaginario gotico per includere nuovi elementi. In altre parole: avanza nella definizione di una musica sempre più originale e al di fuori degli schemi, che affonda direttamente le radici nei moti profondi di uno spirito tormentato ed in continua mutazione.

"Les Fleurs du Mal" si ricongiunge, così, al filone ampio e trasversale della musica delle nevrosi e del dolore. Dell'arte che diviene auto-analisi, messa a fuoco di sé e del mondo circostante, specchio ed esorcismo delle proprie turbe psichiche.

E siamo già curiosi di vedere come in futuro il discorso si evolverà, e se magari nel prossimo lavoro Anna-Varney ci apparirà giulivo e pimpante nelle vesti di un tenero e candido Pikaciù!

Pika! Pika!

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