Plaino di Pagnacco, 7 di mattina del 3 agosto 2013. Non solo mi sono dovuto svegliare a un'ora umanamente ingestibile per andare a Lignano a passare una giornata in spiaggia e a sentire David Guetta (sigh), ma devo pure portarci gli amici: sarò io stesso, quindi, a traghettare il mio culo verso uno degli eventi peggiori della mia vita musicale -e forse non solo. Che poi della compagnia sarà la metà quella che vuole assistere al concerto, ma si sa come va, in un modo o nell'altro chi non capisce un cazzo di musica l'ha sempre vinta. Ma non ve la farò passare liscia, bastardi. Se volete avvelenarmi, prima devo assumere un antidoto. Già, prima.

Ore 7:15... "Sentite- faccio con aria umile e dimessa- vi andrebbe di ascoltare un po'di musica?" "Ok, ok", bofonchiano loro tra gli sbadigli. "Va bene, ora accendo, non so neanche cos'ho su..." In realtà so benissimo che ho su "Louder Than Love" dei Soundgarden, e nel premere il tasto di accensione sogghigno maliziosamente; già dal primo ricamo percussionistico cameronense di "Ugly Truth" ho capito che sarà un viaggetto memorabile.

Robert Christgau ha dato a questo disco C+. Robert Christgau non ne ha capito un cazzo. Questo album è semplicemente una bombarda, come doveva essere. Dimenticatevi del pallido simulacro di Cornell in "Part of Me", dimenticatevi delle rughe e dei capelli bianchi e tornate indietro di 25 anni, quando Chris godeva nell'inserire "fuck" a ripetizione per prendere per il culo il glam e guadagnarsi il "parental advisory" come medaglia all'onore. "You stay down, but I won't be quiet...I'll hammer on until you fight...LOUD LOVE!": questi erano i Soundgarden!

Successivo a quell'ineffabile concentrato di perverso grezzume noto come "Ultramega OK" (pubblicato con la SST di un certo Greg Ginn), "Louder Than Love" fu il primo album che il gruppo di Seattle licenziò per una major, la A&M Records, e si pone come decisivo momento di transizione tra l'esordio e gli episodi che seguiranno, a partire dal granitico "Badmotorfinger". C'è ancora un po'di marcio, ma la strada è stata ormai imboccata, gli spigoli in parte smussati, e, soprattutto, Cornell inizia ad allungare le sue mani sulla band: processo che la porterà, slowly but surely, ai lidi melodici di "Down on the Upside". Ma saranno altri tempi. 

I nostri pescano ancora a piene mani dai Led Zeppelin e dai Black Sabbath, ma tentare di ridurli a una fusione bastarda di questi due colossi è sempre stato riduttivo. Ecco allora la psichedelia spiraleggiante e magmatica di "Ugly Truth", i riff di una malignità quasi doomiana del climax "Gun", i tempi bizzarri della tamarrissima "Get on the Snake", le coccole dello stregone Kim Thayil in "Loud Love" e "Uncovered", l'up-tempo punkeggiante della spietata "Full on Kevin's Mom". Un caleidoscopio di molteplici influenze, figlio tanto degli anni'70 quanto degli'80, in cui non si può non fare un cenno alle composizioni del bassista al passo d'addio Hiro Yamamoto, l'anima dark del gruppo. Il nippo-americano, infatti, non è solo il creatore della blueseggiante "Power Trip", con un Cornell ossessionato e represso come poche altre volte, ma anche del capitolo "dark Seattle", costituito dal binomio "I Awake"-"No Wrong No Right": la pagina più oscura, malata e disperata del Giardino del Suono. Anche in questo disco, per finire, non mancano le prese in giro, che nel capitolo precedente rispondevano al nome di "665" e "667": "Big Dumb Sex", come indica lo stesso titolo, è una demolizione del Glam metal a colpi di gustosi "Fuck you", e la Reprise di "Full on" è paradossale nel suo voler essere un finale catartico e ristoratore, considerato qual era il testo della canzone cui si rifà. Come riassumere il tutto? Semplice: un capolavoro, nonché il disco in cui il signor Cornell sfodera la sua miglior prestazione coi Soundgarden, analogamente a quanto accadrà in "Badmotorfinger" per Kim. Kim che, comunque, anche qui estrae dal suo gonnellino di Eta Beta riff stoner, sabbathiani, hard rock, blues o psichedelici a piacimento, accompagnato dal solito, terrificante Matt Cameron.

E non è solo l'album a essere degno di nota, ma anche il libretto, che contiene ringraziamenti, tra gli altri, a band come Mudhoney (e avrei già detto tutto), Screaming Trees e Mother Love Bone: un segno, a modo suo, che nel 1989 Seattle era una supergigante rossa pronta a splendere come una supernova.

Ah, Guetta non mi è piaciuto: dicono sia "dance" ma non mi ha fatto venir voglia di ballare per un solo secondo. Ma io il mio l'avevo già avuto: vuoi mettere la soddisfazione di vedere gli amici che si guardano negli occhi scaturiti mentre pompi nei loro timpani malaticci "Get on the Snake"?

Hungry and mean!!! 

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