I protagonisti della stagione rock anni settanta viaggiano attualmente tutti più o meno sulla settantina d’anni, cosicché capita ormai ciclicamente di dovere tristemente salutare uno di essi che trapassa a miglior vita. Alla fine dello scorso mese è purtroppo toccato a Chris “The Fish” Squire: il mitico bassista si è dovuto arrendere ad una eritroleucemia acuta del midollo osseo. Per celebrare in qualche modo questo dotatissimo ed influente musicista scelgo di stendere poche righe, appoggiandomi ad un suo album uscito a fine millennio, in sodalizio col multi strumentista e cantante Billy Sherwood in quegli anni accanto a lui anche negli Yes.

Squire ha fatto storia a sé nella musica rock in generale ed in quella progressive in particolare, sia come bassista che come seconda voce armonizzante. In entrambe queste competenze ha applicato al meglio le sue copiose, innate virtù di melodista ed i suoi studi di armonia e contrappunto assorbiti militando sin da giovanissimo in un importante coro liturgico londinese.

A proposito della chitarra basso, il nostro se n’è innanzitutto sempre fregato di inquadrarne il ruolo come classico “pedale” di base di una ritmica rock, nonché occupatore costante ed ottuso delle basse frequenze di un brano. Ha invece sempre lavorato per tenerlo quanto più possibile in primo piano ad intrecciarsi con gli altri strumenti solisti (chitarra, tastiere, voce), pronto in ogni caso a detonare in battuta insieme a cassa o rullante della batteria ogni volta che le esigenze ritmiche imponevano tale connubio. In questo il Pesce è stato certamente ispirato soprattutto da Paul McCartney (per il melodismo spinto applicato senza remore al basso e sfruttando tutta la tastiera, anche i suoi tasti più alti, senza paura) e John Entwistle (per la potenza e il tiro ritmico non compromessi minimamente dal contemporaneo, alto contenuto melodico e poi per la dinamica ed esplosività del suono).

Ecco, il suono: secco, detonante, chiaro, drasticamente distinguibile in ogni mix grazie sia alla tecnica esecutiva (plettro sempre e comunque, mani fortissime, dita perpendicolari sulle corde alla maniera dei chitarristi, il più debole mignolo usato assai sporadicamente) che al tipo di amplificazione escogitato. Più in dettaglio, il segnale del suo basso entrava in due diversi ampli: il primo, settato con un suono assai “pulito” (poca preamplificazione, molta amplificazione finale), si incaricava di mantenere l’attacco delle frequenze più basse, il “bottom” dello strumento, ben presente e dinamico; il secondo invece aveva settaggi opposti e forniva alle frequenze alte più o meno abbondanti dosi di distorsione e compressione, atte ad allungarne il suono e rendere lo strumento pronto a percorrere linee melodiche ben distinte e spesse sui toni medi, quelli che l’orecchio umano percepisce meglio. Questo “sandwich” fra i due diversi suoni ha forgiato il suo timbro peculiare e, per estrapolazione, cospicua parte del marchio sonoro Yes, gruppo rock che anche in questo modo ha sempre goduto di un suono tutto suo, più pop che rock se si vuole, proprio per la mancanza delle tradizionali “pedalate” sulla stessa nota o su poche note che costituiscono il caratteristico procedere rigido e monocorde del genere musicale in questione.

Il talento vocale di Chris, affatto inferiore a quello strumentale, ha dotato gli Yes, al di là di qualsiasi giudizio generale che si possa avere su di essi, di un’immagine unica e irripetibile nei cori. Prima ancora dello speciale talento da controtenore del frontman Jon Anderson, certamente importante, sono stati proprio i contrappunti di Squire a “muovere” impagabilmente le linee melodiche degli Yes dotandole spesso e volentieri non di armonizzazioni (tipicamente di terza e di quinta) bensì di contro melodie e frasi di contrappunto che, insieme ai più tradizionali botta e risposta e a qualche armonia qua e là, hanno popolato l’universo coristico Yes di ricchissime trame. Anderson trovava la melodia principale, ma era Squire ad affiancargli la contro melodia (non sempre, ma spesso) ed in questa maniera i cori di questo gruppo sono unici nel panorama rock, di una complessità inferiore solo a quella dei Gentle Giant e pari a quella dei migliori Queen (anche Mercury non scherzava, in quanto ad abilità armonica). Per completezza, aggiungo che la terza voce negli Yes, fosse di Howe (scarsina) o di Rabin (assai migliore seppur inconsistente), contava assai poco, servendo semplicemente di riempimento nei momenti più corali.

Due parole su questo disco per concludere: è discreto e si fa ben ascoltare. Di pregio vi sono le due belle voci dei protagonisti costantemente in intreccio, l’abilità e il mestiere assoluti in quanto ad arrangiamento ed esecuzione; di difetto vi è il fatto che nessuna canzone raggiunge l’eccellenza e tutte scorrono senza infamia e senza lode, forse perché la registrazione estremamente digitale (suoni poco naturali, “finti” senza in realtà esserlo per buona parte) priva la musica di vera anima e carnalità (questo un difetto assai tipico del mondo Yes, e quasi insopportabile nelle loro opere meno riuscite).

Va a finire che uno dei brani migliori risulta essere “The More We Live”, già sentita in “Union” uno dei dischi peggiori del quintetto, qui comunque in una versione nettamente migliore. Si distingue comunque la sesta traccia “Love Conquers All”, una grande prova melodica del duo.

Ritengo che la scomparsa del Pesce sia un colpo mortale per gli Yes. E’ vero che questi vecchi dinosauri del rock britannico sono già risorti più volte dalle loro ceneri, prolungando una carriera lunghissima che conta ormai quarantasette anni, ma stavolta la mazzata dovrebbe essere finale… La vedremo... intanto grazie di tutto e di cuore Chris, sei stato un grandissimo! Ho la ciditeca piena delle tue cose, ti ho visto in azione tre volte, ora non ci sei più ma la tua musica continuerà ad assistermi e a farmi star bene.

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