L’eccellente chitarrista californiano ha sinora fatto uscire sette dischi a proprio nome e questo è l’esordio datato 1989, col titolare ancor trentaduenne ma già con sette dischi alle spalle insieme ai Toto oltre ad una spaventosa lista di collaborazioni a dischi altrui, da Michael Jackson ad Aretha Franklin, dai Tubes a Lionel Richie. Il disco ricalca per una buona metà atmosfere e situazioni del super gruppo di provenienza di Luke… vi è in ogni caso un numero sufficiente di succose digressioni verso un tipo di rock diverso, più jammato ed essenziale, meno strutturato e patinato.

Una di queste è lo spumeggiante interplay che si scatena fra il titolare e gli ospiti Steve Stevens, anch’esso prode chitarrista, e il tastierista Jan Hammer, impegnati ad estendere a dismisura la terza traccia “Swear Your Love” a mezzo di botte e risposte da orbi nelle lunghe porzioni strumentali. I due Steve competono a chi massacra di più la leva del tremolo del proprio strumento (vince Stevens…), mentre che anche il terzo compare si mantiene in competizione impegnandosi ad estrarre fraseggi tipicamente chitarristici da un sintetizzatore.

Il brano iniziale “ Twist The Knife“ è peraltro un vero e proprio omaggio all’amico Eddie Van Halen, il quale gli cede uno dei suoi tipici riffoni class metal e poi si piazza al basso, a godersi da posizione privilegiata come se la cava il collega alle prese col suo stile. In realtà per ognuno degli undici brani presenti Lukather sceglie di lavorare con un partner compositivo, spesso anche esecutivo. Detto già di Stevens, coautore pure di un altro brano meno riuscito a titolo “Darkest Day Of The Year”, vi è poi una collaborazione col ben noto (in USA) autore e cantante AOR Richard Marx intitolata “Swear Your Love”, nonché un paio di numeri fifty fifty con il chitarrista e produttore Danny Kortchmar (Jackson Browne, James Taylor, Don Henley e mille altri nel suo curriculum) chiamati “Drive a Crooked Road” e “Steppin’ On Top Of Your World”.

Il valore aggiunto più prezioso però arriva a mio sentire da Mike Landau, pure lui chitarrista e fuoriclasse del giro buono di Los Angeles (Joni Mitchell, Miles Davis, pure i Pink Floyd nel suo sterminato elenco di collaborazioni): uno dei suoi profondi, conturbanti arpeggi bagnati di flanger, dal suono impeccabile e niente di meno che magnifico, conduce alla grande la notevole “Got My Way”.

Il resto delle collaborazioni proviene poi dalla songwriter Diane Warren, vero prezzemolo all’epoca per quanto riguardava il giro AOR, qui al lavoro nella soprassedibile “Lonely Beat Of My Heart” senz’altro l’episodio più debole del lotto, e infine da Randy Goodrum anche lui della stessa schiatta della Warren, ossia un affermato ma spesso stucchevole compositore di sdolcinatezze all’americana per conto terzi, presente purtroppo in ben tre brani.

Queste due ultime collaborazioni ridimensionano l’appeal dell’album, che resta però più che dignitoso. D’altronde l’ottimo Luke saprà immediatamente manlevarsi da questa situazione iniziale sostanzialmente inquadrabile come “scarti dei Toto”, attraverso un secondo lavoro solista clamorosamente buono intitolato “Candyman” e via di seguito con altri cinque dischi, che pur fra alti e bassi mostrano generosamente la qualità, apertura musicale, disponibilità, grinta e mestiere di questo grande musicista.

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