Nel 1993 esce il primo album solista del carismatico vocalist dei leggendari Death'SS: un'operazione che in verità farà la gioia dei fan della prima ora, dato che il progetto intende rinnovare la collaborazione di Steve Sylvester con membri della formazione originaria.
Proprio l'impagabile contributo del mitico Paul Chain, l'ascia storica dei Death'SS, rende questo lavoro un piatto decisamente appetibile per chiunque abbia amato la band italiana fin dai suoi primi passi (mossi, lo ricordiamo, nel lontano 1977).
Si dimentichino anzitutto le bordate metalliche di album come “Heavy Deamons” e “Do What Thou Wilt”: “Free Man” è chiamato ad assecondare le pulsioni più propriamente seventies del Silvestri, che costruisce la sua opera solista sulle coordinate di un solido hard-rock di matrice sabbathiana, ma con l'intento di muoversi in totale libertà, affrancandosi in parte dall'iconoclastia che caratterizza l'arte dei suoi Death'SS, confrontandosi piuttosto con quelle band che più ha amato e che più l'hanno influenzato, esaltando in particolare la sua anima più propriamente glam e street-rock.
Non si accantonano del tutto i richiami all'immaginario orrorifico e blasfemo che si stagliano sul fondo della musica patrocinata dalla band madre, ma è indubbio che il Nostro si sia sforzato di dare una spinta maggiore in direzione di tematiche più intimistiche ed introspettive, senza disdegnare tuttavia una leggerezza, una voglia di divertirsi ed una sana attitudine scazzona che si palesa maggiormente nei brani conclusivi dell'opera, che finiscono per filtrare con un rock incredibilmente gigione ed irriverente.
L'album, in verità, si apre con il passo cadenzato ed elefantesco del brano più pesante del lotto: parlo dell'epica “Broken Soul”, caratterizzata dall'ugola spiritata di Silvestri (bellissimo il chorus goticheggiante) e dalla chitarra tagliente e pesantissima di Paul Chain che dopo più di dieci anni torna a collaborare con il suo “nemicamico” di sempre, e con l'altro chitarrista storico dei Death'SS Albert Simonini. Ma la mano del Catena si sente ancor più nella sabbathiana “Underground Life”, senz'altro da annoverare fra i pezzi forti dell'album: un brano riscaldato dal timbro passionale ed avvolgente della chitarra di Chain, qui più che mai tributante le gesta dell'imprescindibile Tony Iommi.
Morbide tastiere e tempi più sostenuti caratterizzano invece il terzo brano “Deadly Sin”, sicuramente più death'ssiana nel suo incedere, anche per le tematiche a sfondo religioso.
“The Wail of the Ocean” rappresenta l'episodio più composito dell'opera, un brano dal sinuoso fascino mediterraneo che ben si destreggia fra partiture acustiche, improvvise scariche elettriche e repentine accelerazioni che costituiscono il teatro ideale per la versatilità ed il piglio teatrale di Silvestri, che riesce comunque ad imprimere la giusta malvagità a quello che rimane il momento più sperimentale dell'album.
I tempi subiscono un'accelerazione nella maidiana “People Who Live in Glasshouses Shouldn't Throw Stones”, una bella staffilata metal dove Chain consegna la chitarra ad Andy Panigada, autore del brano che più di tutti potrebbe presenziare in un album dei Death'SS.
L'apice assoluto viene tuttavia raggiunto con l'intensa title-track, una potente rivisitazione dell'omonimo brano degli Angel Witch, posta non a caso al centro dell'album: a comandare le danze è un suggestivo arpeggio di chitarra che ricama un'epica ballata dal sapore arcaico e visionario. Sentita e coinvolgente l'interpretazione di Silvestri, a suo agio anche in una dimensione più soffusa e sentimentale.
“Agreement with the Devil”, invece, ci suona più dozzinale, fondendo alla perfezione il celebre riff di “Children of the Grave” e il basso incalzante di “Rhyme of the Ancient Mariner”. Il brano rasenterebbe il plagio più spudorato se non fosse caratterizzata dalla voce inconfondibile del singer, che torna a graffiare in grande stile. Pregevoli come sempre gli assoli di chitarra di Chain, melodici, nostalgici, commoventi nel loro fondersi alle grida stridule da satanasso di Steve Sylvester, proprio come succedeva nei bei vecchi tempi andati.
Come annunciato in apertura di recensione, la porzione ultima dell'album si abbandona ad un rock più scanzonato e stradaiolo: se la banale “Run Away” non esalta, diverte, e molto, “Preacher Man”, aperta e chiusa dallo sproloquio di un fantomatico musico-terapeuta sui presunti effetti nocivi della musica rock: il brano, che pesca in pari modo da AC/DC, Motorhead, T-Rex e Motley Crue, è un vero e proprio atto d'amore verso un genere, il rock'n'roll, che si porta sempre e comunque nel cuore, nonostante negli anni Steve Sylvester e soci abbiano preferito percorrere una strada personale, fatta di incubi ed occultismo, che nel tempo li ha condotti a coniare un genere tutto loro (l'horror-metal) e a conquistare lo status di vera band di culto.
Degna di nota anche la bonus-track “Dirty Game”, struggente ballata d'amore perverso che permette alla band di confrontarsi con il glam e lo street rock dei pomposi anni ottanta, influenze per altro mai celate dal mefistofelico cantante dei Death'SS.
“Free Man”, che avrà un seguito nel 1998 (il secondo album solista di Steve Sylvester “Mad Messiah”), non è un'opera che rivoluziona il mondo del rock e dell'heavy metal, ma ha il pregio di non annoiare e di saper piacere per una serie di brani ben suonati e decisamente sentiti; “Free Man” ci consegna inoltre un'immagine diversa di un artista di cui dovremmo andare tutti orgogliosi e mai spregiare, anche se spesso ci può apparire come un pagliaccio; “Free Man”, infine, costituisce una vera manna dal cielo per tutti gli estimatori dei Death'SS, ed in particolare per coloro che hanno mal digerito la dipartita dalla formazione del funambolico chitarrista e co-fondatore Paul Chain.
“Now I'm Free and I Dont't Care,
I Don't Give a Damn
What Happen in There,
Now I Can Do
What I Like
Because Now I'm a Free Man”
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