"Gamelan": tenete bene a mente questa parola, ripetetela fra voi come fosse un mantra, memorizzatela; perché è la parola-chiave per la comprensione di un album unico, fra i vertici assoluti di tutta la nuova musica sperimentale degli anni '90; un'opera intrisa di spiritualismo, densa di sensibilità etnica, profonda come poche. L'apice della ricerca di un musicologo di vocazione e di professione, di un musicista ingiustamente e clamorosamente sottovalutato (a quanto vedo, anche su Debaser): il Maestro Steve Tibbetts, e mai come in questo caso la definizione di Maestro (rigorosamente con la maiuscola) apparirà azzeccata.

Gamelan, si diceva: ovvero, l'ideale ensemble percussionistico nella (plurisecolare) tradizione musicale giavanese, le cui prime attestazioni risalgono fino al XII secolo. In origine le percussioni erano semplice sfondo alla recitazione di canti e poesie di corte, all'interno di contesti aulico-sacrali, solo successivamente furono impiegate per accompagnare danze e spettacoli (la "bedhaya" in primo luogo, in cui si esibivano - e si esibiscono - collettivi interamente femminili). Perché un gamelan sia completo, ossia rispondente alle esigenze espressive del "Pathet" (il "modo" più ricorrente nell'armonia giavanese) deve comprendere: un "gender barung" e un "saron" (metallofoni che non hanno referenti diretti nelle culture occidentali, e complicatissimi da suonare: per questo i suonatori appartengono spesso a famiglie di musicisti); un "gambang", il caratteristico "xilofono" multi-ottave impiegato anche a Bali; un "rebab", cordofono originario dell'Arabia e poi diffusosi in conseguenza dell'espansione  dell'Islam; un "suling", che è un flauto costruito in bambù; infine il caratteristico "gong", che a mò dei piatti delle moderne batterie ha il compito di segnalare il passaggio da un'unità ritmica alla successiva. Su questa base si innesta il canto (vocalizzi corali, per lo più).

C'è una differenza fondamentale che distingue la prassi del gamelan da quella delle altre musiche tradizionali dell'area (l'indiana e la giapponese - il Raga e lo Tsugaru Shamisen - in primo luogo); la musica giavanese è concepita sempre ed esclusivamente per un collettivo, per un gruppo di più elementi, mai come esibizione di un solista. Per intenderci: di un Ravi Shankar gli Indonesiani non saprebbero che farsene; il protagonismo, la centralità di un singolo elemento è un qualcosa che non appartiene alla loro cultura. Non è un caso se, proprio in ragione di questa attitudine, il Pathet sia quello - dei moduli orientali - ad aver meno conosciuto l'influsso della tradizione Jazz e Rock: tanti sono i chitarristi che, a partire dai Sessanta, hanno incluso nelle proprie composizioni elementi di Raga e Maqam arabo, pochissimi quelli che si sono avventurati sugli sconosciuti sentieri della tradizione giavanese; andando a memoria, io ne ricordo soltanto due: uno è Iwan Hasan, misconosciuto chitarrista (e prodigio della 21 corde) dei Discus, band locale di Prog-Rock etnicamente contaminato; l'altro è, per l'appunto, il nostro Steve Tibbetts, un moderno Robbie Basho (ma fanatico di Hendrix) che negli anni ha portato avanti un discorso di stupefacente completezza e varietà. Giungendo, dopo anni di ricerche e un lungo viaggio "sul posto", al tanto atteso incontro con quel retroscena musicale tanto ignorato dall'ascoltatore occidentale.

E' il 1994 quando la prestigiosa ECM pubblica questo "The Fall Of Us All", l'album dell'"incontro"; passaggio cruciale di una carriera intrapresa in sordina nel lontano 1977 con un disco autoprodotto (e suonato "in casa", di fatto, quando ancora era studente universitario a St.Paul - Minnesota). Stupiva già la disinvoltura con cui il giovane alternava acustico ed elettrico, 6 e 12 corde, per uno stile già insofferente delle "frontiere"; qualche anno dopo, "YR" e "Northern Song" saranno il preludio al suo primo capolavoro: "Safe Journey", monumento di cultura e abilità tecnica fuori dal comune, distorsioni e umori hendrixiani su tappeto di congas e tamburi africani; anni di silenzio, fra gli Ottanta e i Novanta, e una nuova apoteosi in corrispondenza di un nuovo "orientamento" (in tutti i sensi) stilistico.

Thailandia, Java, Bali, Malaysia, ma anche i monasteri di Nepal e Bhutan sono le tappe di un viaggio tradotto in musica, fra rigore e sperimentazione, tetre linee acustiche e rabbiose esplosioni di veemenza elettrica; questo album è pervaso dal fascino dell'ignoto e dell'ancestrale, dalla severa atmosfera della meditazione fino all'orgiastica liberazione di danze scatenate. Viene in mente (ma non prendetemi troppo alla lettera) il Santana "cross-over" di "Caravanserai", la Fusion etnica, persino - tornando indietro - il seminale "East-West" di Paul Butterfield; con la differenza che qui non è il Raga a dominare, ma l'atonalità del Pathet, le sue geometrie complesse e disarmoniche a tratti: lingue di fuoco incandescente sono le improvvise eruzioni del chitarrista, che modifica in studio le ortodosse sonorità del proprio strumento e lo costringe a slanci impensati ed entusiasmanti. Sullo sfondo delle percussioni del gamelan. E non si può non essere rapiti da tanta bellezza...

...dalla bellezza di una "Dzogchen Punks" che richiama il Gabriel tribale di "The Rhythm Of The Heat", di una "Full Moon Dogs" che ispira una notte in un tempio buddhista, dell'esotico acid-blues di "Hellbound Train" che profuma di voodoo, del rombo quasi "motociclistico" (tanta è la violenza) che anima e scuote "Roam & Spy". Fra urla, percussioni ossessive e tormentose, e una tensione profondissima, da rituale. Primitivismo misto a modernità, riflessione a sfogo: il tutto all'interno anche di un singolo brano, fra passaggi improvvisi e riverberi in cui si sfiora lo "stordimento" dell'ascoltatore. Ma al termine di tutto è catarsi, è una sensazione di pienezza e soddisfazione che non si può descrivere

Muisca che trabocca di emozioni, dunque, musica che è essa stessa un'intensa, prolungata emozione. E' un nuovo Fripp, quello che ascolterete, che dalla corte del Re Cremisi si è accasato alla corte del sultano. Monumentale.

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