Un album inquietante, un incubo asettico, il nulla contenuto in una scatola anonima, un monolite dell'egocentrismo. Parole a caso, come forse l'ultima fatica di Steven Wilson, gigartista inglese il cui eclettismo ha forse, anzi sicuramente, preso derive perniciose. Il pretesto per The Future Bites doveva essere probabilmente un approccio maggiormente pop elettronico, magari per conquistare le masse, che però ha staccato quasi radicalmente dai precedenti lavori prog-rock, sempre ridondanti ma spesso molto azzeccati. Roba mai vista? No, visto che già l'aveva fatta Peter Gabriel nella sua fase solista, David Bowie e i Queen. Attaccare la chitarra al chiodo, o meglio asservirla alla macchina, e rendere il tutto molto comprensibile anche alle orecchie più semplici. Qualcosa però sembra andato storto e il disco è piuttosto il risultato bislacco e deprimente di una crisi creativa che ci coinvolge probabilmente tutti. Cosa vogliamo veramente ascoltare oggi? Quali sono le nuove frontiere? Rispetto alle melodie piuttosto facili, il disco è impregnato di testi che - quando non risultano incomprensibili - puntano a questi tempi veramente incerti di superpotenze social, consumismo pneumatico e l'esasperazione necrotica dell'individualismo. L'album è corto, intendo offensivamente breve, in pieno contrasto ai panzerotti con mozzarella extra dei precedenti, incluse le avventure Porcupine Tree. Di questa brevità sembra andare fiero, forse anche per spingere la miriade di contenuti bonus sbolognati nelle mille edizioni, ostentando la stessa modularità assassina del marketing criticata dall'album. Paradosale, forse geniale, sicuramente provocatorio.

Un altro elemento non esclusivo è rappresentato da una certa invasività dei cori femminili, che si appropriano dei ritornelli in svariate occasioni, in "Eminent Sleaze" e "Personal Shopper", questo un indubbio highlight del disco, una interminabile e claustrofobica corsa su corsie digitali che rimanda ai Kraftwerk, la disco, un po' di anni ottanta ed Elton John, che offre una suggestiva comparsata. Il brano è una denuncia al consumismo terminale, quello dove entrambe le parti si muovono ormai per pura inerzia: chi produce non ha più nulla da offrire se non fomentare la mania del possesso, mentre gli acquirenti sono disposti a qualsiasi prezzo per questa effimera, sterile soddisfazione. Il tutto è molto ben rappresentato dall'angosciante video, che ha efficace funzione complementare per un'opera che guarda al fenomeno social, la multimedialità, la trasfigurazione dell'individuo atraverso la tecnologia. "King Ghost" analizza proprio questo ultimo aspetto. Nonostante il teso abbastanza criptico e gli arpeggi elettronici delicati e sognatori, tratta temi scottanti - interpretazione personalissima - come l'utilizzo di un avatar come sublimazione/alterazione della propria personalità (sei velocissimo quando ti muovi attraverso una fotografia), ma è solo un palliativo (puoi eliminare lo sporco, ma non puoi cancellare la colpa, faresti meglio a usare le tue medicine), mentre una voce robotica o ultraterrena sembra proprio rivolgersi a questo re fantasma, oltre a sparare una lunga serie di termini curiosi come SKAOKA. "Follower" è un altro episodio caustico, dove Wilson punta agli influencer (seguimi, sarò il mattone lanciato alla tua finestra), i suoi seguaci e gli haters, l'apocalisse dela ragione (il futuro morde, milioni di sputi, troppo tempo ragazzo, troppo tutto), "Man of the People" è un omaggio disturbante ai Pink Floyd, dove le similitudini a "Welcome to the Machine" sono talmente asfissianti da temere l'arrivo in qualsiasi momento del leggendario assolo di minimog.

L'album chiude indubbiamente in bellezza e maggiore personalità con "Count of Unease", lunga, struggente e molto godibile, probabilmente l'anello di congiunzione più efficace verso i precedenti lavori. Qui i vecchi fan si ritroveranno probabilmente a casa e saranno assaliti da un moto di rabbia per tutto quello che si sono dovuti sorbire prima. Personalmente non faccio parte dei fondamentalisti dell'animo prog del buon Steven, sono aperto un po' a tutto e non a caso ho apprezzato i suoi esperimenti come Bass Communion. Tuttavia The Future Bites non è un disco completamente riuscito, scorre bene fino alla fine, ma dura anche tremendamente poco e tanti episodi non risultano memorabili, lo ascolti ma non è sicuro ritornarci per scoprire nuovi dettagli come accadeva in passato. Fa tanto per inimicarsi la fanbase, e probabilmente troppo poco per conquistare nuovi estimatori, è un'opera che ha probabilmente risentito dell'impatto pandemico e ci porta in mano alcune delle sue funeste conseguenze. Difficile considerarlo una parentesi o un nuovo corso, forse meglio la prima, necessario? Superfluo? Nella sua ambiguità rimane un disco divisivo che ha un certo fascino malsano nel riflettere su temi importanti e i nuovi rapporti tra artista e consumatore. Non sarà memorabile ma forse è un qualcosa che qualcuno prima o poi doveva fare, una base sulla quale riflettere per ripartire.

Carico i commenti... con calma