Inizialmente previsto per giugno 2020 è stato posticipato a gennaio 2021 a causa delle difficoltà relative alla promozione, ma alla fine il sesto album del maestro Steven Wilson è uscito fra elogi e critiche, è stato il primo valido motivo per attendere il 2021, un anno che si sta rivelando ancora un tantino triste e specchio di un futuro ancora incerto ma che sta comunque regalando grande musica.

Wilson sceglie ancora una volta una strada che ha poco a che vedere con il prog-rock dei bei tempi. Già ci aveva provato con “To the Bone”, virando senza timori verso lidi più accessibili comunque ancora segnati da quella ricercatezza melodica riconducibile ad un certo prog, un peculiare pop-prog che guardava a certe produzioni anni ’80 con un approccio molto attualizzato. Con lo stesso coraggio e con ancor meno paura di essere screditato da certi puristi Steven rincara la dose, “The Future Bites” è ancora più pop, quasi immerso, seppur con un piede fuori, nel puro pop, quello proprio più bistrattato e ruffiano, quello più elettronico, timidamente zuccherino e volutamente artificioso, quello più tristemente vittima di critiche, spesso a prescindere (molta roba degli anni ’80 è lì a dimostrarlo); Wilson stavolta ha proprio trovato difficoltà a comporre con una strumentazione tradizionale, di lì la scelta di affidarsi prevalentemente alla strumentazione più elettronica.

Il materiale comunque è molto vario, non c’è un brano uguale all’altro e attinge dagli anni ’70 fino agli anni 2000, passando anche per le esperienze con i Porcupine Tree, che secondo le sue ultime dichiarazioni “potrebbero tornare da un momento all’altro” e che in ogni caso non ha mai disdegnato né smesso di citare nelle sue creazioni soliste. E in ogni caso la cura per gli arrangiamenti e per i dettagli non manca mai, di sicuro non è il pop plasticoso e assolutamente piatto da classifica che piace ai giovani, Wilson per fortuna si tiene ben a distanza da tali scempi, ha la classe giusta per farlo, anche nel più commerciale degli episodi inserisce quel qualcosa che lo rende ostico, che lo fa suonare strano ed introverso, che lo rende non esattamente “per tutti”; in sostanza, Steven Wilson è pop ma rimane sempre e comunque Steven Wilson. Molti non l’hanno proprio vista così, le critiche sono state molte, l’album ha una media piuttosto bassa su Progarchives e su Rate Your Music, per molti è stato davvero uno scivolone nel commerciale e nel cattivo gusto.

Entrando nel merito però possiamo snocciolare meglio l’estro di Wilson. Partendo dal brano più clamorosamente pop, “Self”, dove Steven ritrova il suo vecchio compagno di avventure Richard Barbieri; è un dichiarato synth-pop dalla ritmica disco, che attinge dagli anni ’80 ma anche dai ’70, con i suoi frivoli coretti; sarà una clamorosa commercialata ma quel sintetizzatore suona distorto ed allucinato, rigurgita schizzi acidi in tutte le direzioni, quello che potrebbe sembrare un semplice tributo agli anni ’80 è in realtà una manifestazione psichedelica. Anche la successiva “King Ghost” è in qualche modo appetibile al mainstream ma con assoluta riserva, ha un beat r’n’b abbastanza familiare ma ha dei suoni minimalisti e ricercati che Wilson colora con degli acuti vocali, ha quell’atmosfera quasi trip-hop non certo fatta per essere digerita da qualsiasi ascoltatore di RTL 102.5. “Man of the People” poi è l’estremizzazione di tutto ciò, i suoni e gli acuti vocali si fanno ancora più sottili, qua siamo perfino lontani dal pop e sempre più prossimi ad un certo trip-hop, è sostanzialmente una mosca bianca nel tutto.

La manifestazione pop più particolare ed ermetica è però “Eminent Sleaze”: lo Stick di Nick Beggs e percussioni appena udibili creano un’atmosfera oscura e misteriosa, che viene però illuminata da inserti di archi e cori soul vagamente presi da una certa disco anni ’70, le chitarre saltellano sul loro posto così come si limita a saltellare tutta l’impalcatura ritmica; come se fosse una voglia di ballare repressa, come se Wilson volesse sfogare la sua voglia di scatenarsi riuscendo però con grande forza di volontà a contenere l’istinto; è un brano troppo particolare, non si riesce nemmeno a descriverlo con esattezza, è una sorta di funk poco vivace, una specie di disco music inesplosa, rievoca certe sonorità senza però tradursi in un brano da pista da ballo; è un funk oscuro che non si può nemmeno ballare, ci si può forse saltellare sul posto; potremmo forse definirlo “dark-lounge”, sembra più un brano da pre-serata, da locale buio e un po’ spento che però spera di animarsi nel giro di un’oretta, in ogni caso credo che ci voglia una certa genialità per comporre un brano del genere, ma anche un certo coraggio per disprezzarlo.

Diventare danzereccio e discotecaro in realtà non è nemmeno troppo un problema per Wilson; “Personal Shopper” si cala senza problemi in sonorità vicine ad una certa dance anni ’90, i synth ossessivi e ripetitivi sono più o meno quelli, la durata di 9 minuti poi la fa davvero somigliare ad una sorta di extended mix per le discoteche, dove le parti pesanti sono tirate per le lunghe ma concedono anche tregue rilassate e celestiali… ma in tutto questo Wilson si ricorda ancora una volta di essere un musicista di classe dotato di una certa eleganza, non vuole che il brano sia uno sterile “tunz-tunz” e allora recupera effetti psichedelici e trip ambient che caratterizzavano il primo periodo con i Porcupine Tree. Steven ha praticamente realizzato un brano dance anni ’90 che spazza via qualsiasi brano dance dell’epoca; in più, a riprova della sua rilevanza nel panorama musicale, ha potuto anche permettersi il lusso di ospitare Elton John nel ruolo di speaker pubblicitario, lo si sente durante la parte più lenta mentre presenta una serie di prodotti più o meno improbabili.

“Follower” è il brano invece che suona più anni 2000, salvo qualche colpetto di synth molto anni ’80, presenta un’elettronica energica ma dai suoni cupi e un po’ industriali, ha un piglio molto indie, alternative, all’incirca sullo stile dei Planet Funk.

Il brano più profondo e meno catchy è comunque “Count of Unease” che è sostanzialmente il retaggio pop-prog ottantiano del precedente album, ha un’atmosfera dilatata e sofferta, con accordi di tastiere allungati ed amplificati, percussioni appena udibili e un’intensità che cresce lentamente, è il tipico brano del gruppo new wave anni ’80 quando decide di lasciare un attimo da parte certe sonorità zuccherine per calarsi nell’atmosfera ricercata; si riaffacciano i Tears For Fears di fine anni ’80 come anche i Talk Talk (il brano assomiglia all’incirca a “April 5th”). Una perla non prevista, la tracklist pre-Covid doveva chiudersi con “Anyone But Me”, buon brano pop ma non in grado di offrire una chiusura coi fiocchi, ma per la serie “non tutto il male vien per nuocere” il rinvio dell’uscita è stato quasi provvidenziale, ha permesso a Wilson di sostituirlo con questo gioiellino che sembra fatto a posta per mostrare che Steven ha ancora la giusta ispirazione per comporre qualcosa di ricercato ed intimista.

Se invece si vuole trovare qualcosa di meno elettronico e artificioso allora si può far affidamento su “12 Things I Forgot”, un altro brano che mantiene un certo legame con l’album precedente ma anche con i Porcupine Tree del periodo 1999-2000, una sorta di brit-pop totalmente disimpegnato, una chitarra che scorre leggera e regolare senza strafare e una melodia fresca e luminosa. Lontana dall’elettronica anche l’intro “Unself”, giusto poche soffici pennate acustiche e qualche nota di piano per introdurre l’album, un’intro che meritava di essere approfondita ed espansa, in realtà Wilson l’ha fatto (assieme ad altre tracce) ma l’ha riservata all’edizione deluxe.

Morale della favola: in questo momento storico Wilson è un compositore pop, sicuramente per vocazione ma qualcuno non vorrebbe escludere che ci sia dietro il secondo fine di portare qualche pagnotta in più a casa, essendo lui ora un uomo sposato e con famiglia… In ogni caso ha un gran caos esplosivo per la testa, prima un tour riprogrammato per fine anno (dopo l’annullamento di quello del 2020) e subito dopo nuovamente cancellato a causa dell’evolversi incerto della pandemia, poi la dichiarata intenzione di volersi subito mettere al lavoro col desiderio di far uscire due nuovi album nel 2022 e 2023.

“The Future Bites” comunque è il classico disco che fa storcere il naso ai puristi, quelli secondo i quali i loro possenti artisti non dovrebbero mai scomporsi, mai provare a far nulla di più easy, diciamo che è un disco blasfemo ma fiero di esserlo. Ho provato a trovare un motivo per criticarlo ma dalla mia analisi sento che Wilson non ha sbagliato nulla, ha fatto tutto per bene con la solita maestria. È proprio un disco da ascoltare senza pregiudizi.

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