Da questo 2013 mi sarei aspettato di tutto, addirittura il ritorno dei Tool, ma non un nuovo album di Steven Wilson. D’altronde anche questo vuol dire cogliere di sorpresa l’ascoltatore, e non solo con la musica!

“The Raven That Refused To Sing” è un album “facile” come lo definisce lo stesso Wilson dopo la spontanea domanda “ma dove c***o lo trovi il tempo?”, e da album facili derivano tempi rapidi… forse.

L’album, si può dire esplicitamente, è un vero tuffo nel passato: prog rock pomposo e repentino da farci dannare di vivere in questo zezzo millennio. Si lo so è una bestemmia paragonare la musica di Steven al passato ma il rifacimento qui è così sfacciato, è palese. L’ha voluto fare di proposito, altrimenti è un morto di fame.

I dubbi vengono portati via già dai primi minuti di “Luminol”: raffiche sbizzarrite di intermezzi strumentali capaci di ammazzarci in men che non si dica se solo fossero armi. Corpo di mille balene! Seguendo l’album si possono gustare un paio di (semi)ballad come la commovente “Drive Home”, e l’ancestrale “The Pin Drop”; un paio di “mastodontiche” come “The Warchmaker” e la title track finale, con una melodia di base davvero colossale. Ho saltato “The Holy Drinker”, la più cazzeggera(nel senso buono), lampante nei suoi intermezzi virtuosi(vi allego un sample) e nelle strofe poppeggianti(no sample). Non vi stuferete a scoprirle ascolto dopo ascolto!

Sei canzoni, sembrano poche, ma i tempi sono di quelli alti: ben 55 minuti. Nonostante la sua grande esperienza Wilson ripete sempre i suoi piccoli errorini. Le canzoni sono molto lunghe: si va dai 5 fino a vette di 11/12 minuti. Il prezzo potrebbe essere appagato dalla qualità e dalla quantità d’esecuzione, ma non è nel nostro caso; la qualità c’è eccome, ma la quantità di idee è davvero irrisoria. I temi (soprattutto gli inizi/finali) sono stirati all’inverosimile; in diversi tratti mi annoiavo addirittura. Spero sia una cosa soggettiva ma credo che questo sia l’album più allungato degli ultimi anni e della carriera del porcupino. Difettuccio.

Per il resto basta pronunciare 3 nomi: Alan Parsons: uno dei massimi missatori del passato (vedi Pink Floyd e The Beatles); Guthrie Govan: il chitarrista più eclettico e singolare di questi tempi; Marco Minnemann: mirabolante batterista variegato nello stile come pochi. Senza contare l’imponente muro sonoro costituito da flauti, percussioni, sassofoni, clarinetti, basso e tastiere d’ogni genere. Wilson ha menato parecchio in questo lavoro e quello che era un progetto solista è quasi diventato un secondo (terzo, quarto) gruppo, ovviamente tutto gira intorno alle sue volontà ma già scoprendo che nei live è uno “tutto fare/niente fare” fa pensare…

In conclusione “The Raven That Refused To Sing” è un album ben fatto e molto curato; le melodie sono eccezionali, gli assoli ben studiati, gli accompagnamenti incantevoli e la voce armoniosa. Come sempre Wilson non delude mai sfornando album a quantità industriali e a qualità artigianali. Trovo solo questa piccola lacuna dei tempi troppo dilungati ma pesa relativamente poco.

Gustatevelo e soddisfate la vostra sete di buona musica. Corpo di mille balene!

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Di  pana

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