Sono passati esattamente vent’anni, ce lo ricorda l’ultimo nuovissimo lavoro “Tear Me to Pieces”, con una copertina che sa tanto di celebrazione del glorioso antenato. In queste due decadi sono arrivati un disco d’oro (a poco più di sei mesi dalla pubblicazione) e un disco di platino (nel 2021), oltre ad una fama smisurata che ha reso le sue dodici tracce un inno generazionale.

“Page Avenue” è un album tanto potente quanto melodico e tutto quello che è successo prima della sua nascita è stato consegnato da tempo alla storia.

Il successo della band e del disco sono arrivati grazie a John Feldmann, frontman dei Goldfinger, band ska punk sotto contratto con la Mavericks Records (etichetta di proprietà di Madonna), che al tempo lo aveva voluto anche come talent scout.

Oltre all’intercessione di Feldmann, ci si è messo il destino, spinto in modo deciso dalla furbizia dei Big Blue Monkey, formazione che inizialmente vedeva Dan Marsala seduto dietro la batteria e Philip Sneed addetto alle sei corde. Galeotto fu il Pointfest, festival radiofonico di St. Louis, durante il quale la band (che al tempo aveva già implementato Adam Russell al basso e Josh Wills alla batteria) si intrufolò nel tour bus dei Goldfinger, per lasciare all’interno e in bellavista una sua demo video con registrazioni di musica live.

Scoccò la scintilla e il passo fu breve. Feldmann volle a tutti i costi tirare a lucido i nuovi pupilli registrando alcune demo in acustico, per poter sperare in un contratto discografico. La Maverick Records, neanche a dirsi, decise di investire tempo e denaro e i Big Blue Monkey abbandonarono il moniker che poco convinceva i mecenati, per trasformarlo in “Story Of The Year”.

La leggenda narra che i primi pezzi di “Page Avenue”, ovvero “Anthem of Our Dying Day", "Until the Day I Die" e "Razorblades” furono registrati a casa di John Feldmann, presso i Foxy Studios di Marina del Rey, in California. Diversamente da come ci si possa immaginare, gli Studios altro non erano che una camera da letto con soffitto e pareti foderati con schiuma e confezioni di uova. Ciononostante, il lavoro non mancò di professionalità, con sessioni massacranti di quindici ore al giorno, che per la parte finale si tennero alle Hawaii.

Il sound del disco ricorda quello dei Thrice e The Used, band peraltro prodotte dallo stesso Feldmann, che influenzò molto la composizione di ogni brano, tanto da arrivare ad infastidire Dan Marsala, songwriter dei neonati (ma tutt'altro che inesperti) Story Of The Year, che inizialmente voleva concepire un disco prevalentemente metal. Alla fine vinse la vocalità e pur non rinunciando alla potenza, la soluzione finale accontentò tutti.

Si passa dalla pacata riflessione di “Anthem of Our Dying Day”, alla splendida ballata “Sidewalks”, passando per “Swallow the Knife”, parlando della vita, delle relazioni e di come il successo possa portare a perdere la semplicità, fino ad arrivare all’aggressività di "Divide and Conquer". Quest’ultima è capostipite di una sessione di registrazioni che prevedevano pezzi particolarmente pesanti, facendo fede all’idea iniziale di Marsala. Tra loro, l’opening “And the Hero Will Drown”, "Razorblades”, “In the Shadows”, “Burning Years” e non ultima “Falling Down”, dal carattere punk più puro.

“Dive Right In” e “Until the Day I Die” strizzano l’occhio all’emo, in particolar modo attraverso i testi. Se la prima si abbandona ad una cupa riflessione, rifacendosi ad una sorta di totale e drastica estraneazione dalla vita terrena, la seconda, che è il pezzo più famoso della band, è una dichiarazione d’amore talmente sentita da tirare in ballo la morte:

Until the day I die
I'll spill my heart for you

Should I bite my tongue?
Until blood soaks my shirt
We'll never fall apart
Tell me why this hurts so much

My hands are at your throat
And I think I hate you
But still we'll say, "Remember when"
Just like we always do

Il titolo dell’album fa riferimento ad una famosa e trafficata autostrada situata vicino St. Louis, in Missouri. La copertina, creata da Lawrence Azerrad, uomo di fiducia della Maverick Records, mostra la sagoma di un uomo e l’immagine satellitare (scattata da Space Imaging) di San Diego. La band aveva preteso che la stessa immagine fosse focalizzata su St. Louis (cosa molto più pertinente) ed era stata inizialmente rassicurata in tal senso. Inutile dire cosa provocò il mancato rispetto degli accordi, dato che il filo conduttore dei testi, riscontrabile in particolar modo nella title track “Page Avenue”, narra la storia di quattro ragazzi che abbandonano la loro piccola realtà locale per realizzare i propri sogni, rendendosi di fatto conto di quanto siano importanti la propria casa e il punto di partenza.

Nei primi anni del nuovo millennio, “Page Avenue” è stato la classica partenza “col botto”. E’ un disco sincero fatto a cuore aperto, è una boccata d’aria fresca. Sono proprio i dischi migliori quelli che vivono una produzione turbolenta, se così si può definire. Quelli che nascono da opportunità volute e create con impegno e anche un po’ di fortuna. Quell’impegno messo da quattro ragazzi di contea, che hanno ancora oggi tanta voglia di dimostrare che non basta un’immagine satellitare per dire al mondo quanto possa diventare grande un piccolo punto di partenza.

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