In che modo gli Styx sono entrati di prepotenza nella mia vita fra una miriade di band mi è ancora difficile stabilirlo ma ho un’idea più o meno chiara. Molto probabilmente l’arnese con cui hanno fatto breccia è la proposta di non facile classificazione, con una base ben chiara ma con molti ricami attorno. Gli Styx sono per prima cosa una band AOR, una realtà brillante e solida del rock americano, con piglio tipico d’oltreoceano, una band in grado di comporre brani energici, efficaci e tutto sommato orecchiabili. Tuttavia limitarsi a ingabbiarli in tale definizione è assolutamente riduttivo, gli Styx sono molto altro e i loro brani non hanno certo la semplicità e l’essenzialità delle band che vengono abitualmente inserite in questo calderone, non sono certo i Survivor o gli Europe; hanno infatti una tangibile e riconoscibile influenza progressive, senza però essere davvero una band progressive. Le loro composizioni non sono certo quelle libere e iperstrutturate tipiche dei gruppi progressive, se qualcuno mi consiglia un gruppo progressive rock di certo non gli suggerirò gli Styx. Ma nei loro brani compaiono tutta una serie di elementi pescati a piene mani dal prog: intro o outro elaborate, sezioni strumentali che si distinguono dal resto del brano, fughe di chitarre e tastiere, parti rallentate o accelerate, aperture di synth caratteristiche o fraseggi acustici complessi, oppure può capitare che anche il più diretto dei brani abbia un virtuosismo marcato o soluzioni atipiche; e sì, qualche interludio o qualche brano articolato esplicitamente prog ce lo piazzano eccome. Diciamo che a catturare la mia attenzione (come quella di tanti adepti prog) è stato proprio questo fare da ponte fra due generi, questo essere o non essere (prog), questo essere in bilico, questo essere troppo per far parte di un genere ma non abbastanza per far parte dell’altro.
C’è però da dire che l’influenza prog non ha caratterizzato l’intera carriera del gruppo, perché dal 1979 in poi la band se ne è staccata e ha composto brani perlopiù lineari e molto più calati in un contesto pop, rock e AOR, sempre comunque di ottima fattura. Ma a sorpresa negli ultimi dischi, dopo quasi quarant’anni, la band è tornata ad inserire elementi prog. Prima con “The Mission” nel 2017, poi con “Crash of the Crown” nel 2021… e con quest’ultimo, “Circling from Above”, uscito lo scorso luglio.
A dire il vero in questo disco l’influenza prog è molto sottile, labile, levigata, già nel disco precedente lo era, i brani scorrono per lo più con semplicità, quasi a voler dare la conferma che alla fine della fiera gli Styx NON sono un gruppo prog. Il prog ha influenzato la band in maniera molto più evidente e clamorosa negli anni ‘70, però in qualche modo l’influsso c’è, si riesce a scovare se si ascolta con un minimo di approccio analitico, gli elementi sopra elencati qua e là si trovano.
Emblematica in tal senso è l’omonima intro, che è la classica intro accogliente e visionaria da concept album, ma anche l’outro “Only You Can Decide”, con il suo mood rilassante e catartico e la sua apertura di mellotron, è perfettamente idonea allo scopo. Ma non sono certo gli unici brani a mostrare un certo piglio prog. Ad esempio “Build and Destroy” ha stacchi tattici di synth in piena regola e una parte conclusiva acustica rallentata che spezza bene il ritmo del brano. Oppure “The Things That You Said”, che viaggia fra colpi di piano, inserti di archi e ancora synth, senza avere una struttura canonica, poi nella parte finale cambia, cresce di intensità, potenzia le ritmiche e le chitarre, aggiungendo anche solidi tappeti d’organo. Un significativo dinamismo lo registriamo anche in “It’s Clear”, fra parti massicce e altre meno, variazioni ritmiche non troppo marcate, basi elettroniche e stacchi barocchi.
Il resto è decisamente più libero da tentazioni prog, ma offre comunque un buon livello di ricchezza compositiva, ogni brano è diverso e unico e vi sono delle chicche assolute in grado anche di catturare significativamente l’ascoltatore. Impossibile ad esempio rimanere indifferenti all’inconsueto blues/country di “King of Love”, dove il ritmo incalzante e i tocchi di armonica vengono sorretti da una spiazzante base elettronica, un mix di elementi tanto improbabile quanto affascinante. E che dire di “Blue Eyed Raven”, che si butta su un frizzante flamenco, con vivace assolo di mandolino e un veloce finale segnato da un impetuoso violino che suona a metà fra il celtico e i Kansas. Interessantissimo anche il blues acustico ma accattivante di “We Lost the Wheel Again”, mentre la ballad molto americana “Forgive” è degna di qualsiasi gruppo AOR che si rispetti. Non manca qualche episodio non proprio top, uno su tutti “Everybody Raise a Glass”; poi non mi fa impazzire, quando interviene, la voce di Lawrence Gowan, rimpiango quella di Dennis DeYoung, e avrei voluto sentire un po’ di più quella graffiante di James Young (a cui solitamente venivano affidati gli episodi più rock’n’roll e hard rock del disco).
In ogni caso siamo di fronte ad un disco incredibilmente fresco, variegato e ispirato, ed è davvero difficile credere che sia stato realizzato da una band con oltre 50 anni di carriera. Poi è ovvio che esce sconfitto dal confronto con i capolavori degli anni ‘70, ma che importa in fondo?!
Elenco e tracce
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